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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 105 - 1 Dicembre 2013 | 1 commento

Partorire libri. La maternità nei racconti delle scrittrici della migrazione.

Partorire libri. La maternità nei racconti delle scrittrici della migrazione.

Partorire libri. La maternità nei racconti delle scrittrici della migrazione.

 

La nascita di un figlio è un’esperienza molto importante nella vita di ogni donna e assume un valore aggiunto per chi proviene da un paese diverso dall’Italia perché modifica il processo migratorio, confermando l’esigenza di mettere radici e progettare un futuro per sé e per la propria famiglia.

Nella letteratura della migrazione il tema della maternità è affrontato in diversi romanzi e racconti, soprattutto di scrittrici della “seconda generazione”: «la capacità di creare bambini può essere assunta come modello per la creatività delle opere dell’ingegno».[1]

La maternità è il paradigma simbolico di un periodo d’attesa, durante il quale molte donne si ritirano in se stesse e stanno in ascolto, mentre il loro corpo si trasforma, e dopo “essersi ascoltate” decidono di scrivere per esorcizzare le paure che la gravidanza porta con sé, soprattutto quando avviene in solitudine, in un paese straniero.

L’angoscia che queste donne provano nel mettere al mondo un figlio è dovuta all’incapacità della società di accettare questi bambini dalle identità plurime: dietro l’evento della maternità delle singole autrici c’è una crisi, ben più profonda, dell’intera società d’accoglienza.

Diverse scrittrici della migrazione, come Gabriella Kuruvilla,[2] hanno scritto durante la gravidanza o hanno parlato di maternità, mettendo in luce come per chi migra in un paese lontano dal proprio, la maternità sia un’occasione per riflettere maggiormente su se stesse.

È significativo che le donne approfittino proprio del periodo in cui sono più vulnerabili per provare a trasformarsi in soggetti resilienti – come alcuni materiali che hanno la proprietà di riacquistare la forma originaria anche quando vengono pressati o alterati – in grado di riorganizzare la propria vita in maniera positiva per offrire un futuro migliore ai propri figli e per permettere ai soggetti appartenenti alla società di accoglienza di de-colonizzarsi da se stessi e dal proprio pensiero unico, aprendosi all’incontro con l’altro.

Se ogni migrazione è un evento «potenzialmente traumatico», per le donne migranti in stato interessante si presentano una doppia sfida e un duplice conflitto interiore. Le future madri si ritrovano ad interrogarsi sulla necessità di permettere ai propri bambini di far propri i valori del paese ospitante o se sia più giusto trasmettere loro quelli del proprio paese di origine.

La maternità mette in luce e potenzia tutte le problematiche affrontate dalle scrittrici migranti, le quali non possono più interrogarsi solo sulla propria identità, ma devono anche preoccuparsi dell’educazione dei figli che portano in grembo o che hanno già messo al mondo, e impegnarsi per non trasmettere loro l’incertezza che deriva dal vivere fra più culture. Inoltre, le donne tendono a ridefinire le logiche relazionali, anche all’interno dei nuovi contesti migratori e sempre tenendo conto del fatto che la nascita di un figlio è di per sé un fenomeno che stravolge tutte le relazioni.

Le donne migranti, solitamente, dichiarano di scrivere per ricostruire il proprio sé femminile e per superare la scissione e l’estraniazione che vivono nella propria interiorità.

Il concepimento di un figlio, inevitabilmente, porta le future mamme ad interrogarsi sulla propria identità e a ridefinire se stesse per accogliere l’altro che entrerà a far parte della propria vita. Se è possibile eludere le domande durante la gravidanza (anche se pochissime donne ci riescono sul serio), queste tornano a galla al momento del parto.

In un mondo in cui si fa ancora molta fatica ad accettare la nascita di bambini “meticci”, non stupisce che molte donne decidano di scrivere durante la gravidanza o di parlare della maternità, non tanto perché si tratta di un fatto biologico ed elementare, quanto perché loro stesse sono esasperate da un fenomeno che le porta a confrontarsi col proprio senso di estraneità e con quello che potrebbero provare i propri figli.

Se ogni migrante deve impegnarsi a ridisegnarsi in un nuovo contesto e, fondamentalmente, deve rinascere in una nuova società, o perché lo desidera o perché viene costretto dalla società stessa, le donne migranti in stato interessante si trovano imbrigliate in una doppia nascita e ciò comporta, inevitabilmente, un doppio trauma. Un trauma che se non è vissuto dalle donne in prima persona, quasi sicuramente viene/verrà subito dai propri figli.

I figli di genitori stranieri tendono a sentirsi dei veri e propri equilibristi dell’essere, imbrigliati in definizioni scelte dall’alto (seconde generazioni, cross generation, etc.) con le quali cercano di convivere, pur vivendo il malessere dettato dal sentirsi esseri “in bilico” fra due appartenenze.

Inevitabilmente la donna straniera che scopre di aspettare un bambino è portata ad interrogarsi sul proprio vissuto migratorio e su cosa può offrire al figlio che nascerà e, sovente, realizza pienamente di essere una straniera proprio durante la gravidanza. Se decide di portare avanti la gravidanza deve pensare ai bisogni e alle aspettative del suo bambino, a come prepararlo all’incontro col mondo esterno, di cui lei per prima non conosce tutte le dinamiche.

Se è vero che l’intera società è in crisi e che le difficoltà da affrontare nella vita di ogni giorno sono trasversali a tutte le famiglie, è anche vero che le famiglie migranti sono messe ulteriormente in difficoltà dalla precarietà che è una caratteristica ancora più evidente della condizione migrante.

Sarebbe molto utile aiutare le madri a immaginare il figlio che metteranno al mondo perché il bambino è uno straniero col quale la madre deve entrare in relazione, imparando non solo a conoscerlo, ma anche a riconoscerlo. Il neonato è un essere culturale, che va identificato e inserito in una realtà in cui, come si nota soprattutto nei racconti di Gabriella Kuruvilla, si fa già fatica ad immaginare un futuro per se stessi.


[1] F. Rigotti, Partorire con il corpo e con la mente. Creatività, filosofia, maternità, Torino, Bollati Boringhieri, 2010, p. 13.

[2] Si consiglia, in particolare, la lettura dei seguenti testi di Gabriella Kuruvilla: È la vita, dolcezza, Milano, Baldini Castoldi Dalai, 2008; Questa non è una baby-sitter, Milano, Cart’armata: Terre di mezzo, 2010; Milano, fin qui tutto bene, Roma, Laterza, 2012.

 

1 Commento

  1. Io sono al 100% figlia di stranieri… e tre mesi fa ho dato a luce un bellissimo maschietto, “meticcio”.
    e onestamente durante la mia gravidanza ho soltanto pensato che il fatto di essere figlio di due persone di origini differenti possa solo essere un vantaggio nel corso della sua vita! certo che durante la sua adolescenza non presentera` un vantaggio visto che essendo un periodo di timidezze e molte incertezze si vorra`essere piu simili ai propri compagni…
    ma non credo assolutamente che questo gli portera´degli scompensi o dei complessi da adulto anzi….

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