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Scritto da nel Arte e Spettacolo, Numero 101 - 1 Luglio 2013 | 1 commento

Apologia dell’arte: lettera aperta al ministro Bray

Apologia dell’arte: lettera aperta al ministro Bray

Se il livello culturale sviluppato dal popolo italiano è tale da non consentire che la cultura stessa, in senso assoluto, sia messa dietro gli scudi di chi può scegliere cosa è giusto difendere dall’incuria e dalla crisi, a farne le spese è innanzitutto il patrimonio artistico. A questo mi riferisco come al complesso dei tesori architettonici, scultorei e pittorici conservati in questa nostra repubblica, tanto ricca di emergenze culturali e paesaggistiche da essere affettuosamente definita il bel paese.

Il patrimonio artistico ha bisogno di un’apologia perché è accusato ingiustamente da amministratori ignoranti, forti del disinteresse becero di un paese che ammira i fantocci dei programmi televisivi e dunque non può interessarsi della salute delle opere che detiene. La pena richiesta da questi accusatori è una morte violenta, un soffocamento lento che aggiunge la crudeltà della tortura.

Se da un lato le istituzioni sono cieche a un’agonia urlante, molte delle persone che oggi dicono d’interessarsi d’arte sembrano burattini in mano alla moda. La moda, già: quella che ha consentito l’accostamento dello spettacolo e del business all’idea di opera d’arte, con il doppio risultato di distrarre l’attenzione delle persone da tanti artisti meritevoli e di confondere escrementi mentali ed emozionali con la pittura e la scultura. Ciò è accaduto perché si è fatto passare il concetto che per realizzare un’opera d’arte sia sufficiente l’estro creativo; invece, insieme all’intuito e all’impeto, insieme al fervore e all’ispirazione, ci vuole tecnica. Al posto di questa si vede apparire altro, cioè il denaro; e con esso, in effetti, si possono realizzare grandi e stupefacenti installazioni che di artistico, però, hanno poco. Perché una realizzazione non è artistica se solo stupisce, ma se anche tocca le corde interiori, e questo accade principalmente grazie a una corrispondenza ai valori estetici di ciascuno. In altre parole, grazie alla sua bellezza. Che, si guardi bene, ha forme e canoni diversi in ogni tempo e in ogni luogo; ma da essa non si può prescindere.

A questa problematica, forse di natura più gnoseologica che altro, s’impernia strettamente la situazione tragica in cui versa il patrimonio artistico del paese. In ogni città d’Italia s’investono milioni per esposizioni che concernono quasi esclusivamente lo spettacolo e l’abuso che si fa dello stereotipo di una persona di buon livello culturale come di un essere che non possa non rivelarsi intimamente appassionato a ciò che gli organizzatori di eventi propinano, indipendentemente dal fatto che si tratti di merda o di arte. È per questo che se da un lato le grandi mostre consentono di godere eccezionali retrospettive, dall’altro sono un richiamo per migliaia di persone che possono intasare il percorso espositivo per garantirsi una vista sfuggente di opere che non interessano affatto; ma così facendo avranno certamente un argomento per mostrarsi intelligenti e acculturati al loro aperitivo radical chic, ammesso che l’aperitivo radical chic non sia offerto direttamente all’inaugurazione di una mostra. Uh, pardon: al vernissage di un opening.

Mentre i contemporanei appassionati d’arte, dunque, sono impegnati a bere champagne da supermercato in compagnia di modelli e starlette, il patrimonio artistico italiano crolla, marcisce, è dimenticato. Il Colosseo, unico monumento romano non interessato dai restauri che rinnovarono l’intera città in occasione del Giubileo del 2000, cade letteralmente a pezzi; un imprenditore offre venticinque milioni di euro (€ 25.000.000, non fosse chiaro, si tratta di venticinque volte sei zeri con l’uno davanti) per ripulirlo e dargli nuove cancellate – oggi sono tubi per impalcature – e viene attaccato da tutti i benpensanti che non vogliono la pubblicità sui teloni bassi che copriranno la zona di lavoro. Tutti quanti avremmo preferito che fossero state le nostre tasse a pagare quei lavori, e ci auguriamo che d’ora in poi sia così; ma nel frattempo, ben venga questo regalo. E poi, quanti esempi di abbandono e di possibile valorizzazione ci sono: vicino alla Capitale, ad esempio, la straordinaria città di Ostia Antica, in centro i Fori e il Palatino, e il semisconosciuto Mausoleo di Augusto, che si trova in un incredibile stato di incuria.

Speriamo che il ministro Massimo Bray riesca a fare quel che auspicava al momento della sua nomina, ossia tutelare e valorizzare il passato per generare valore per il futuro. Dev’essere da quelle pietre che partirà la rinascita del paese; una rinascita economica, sfruttando le immense possibilità del turismo, e culturale, perché i cittadini imparino a dare attenzione amorevole alle opere che detengono l’origine del loro sviluppo antropologico. Ognuno, nel suo paese, ha un quadro o una scultura o un palazzo da difendere, perché tramandi ai posteri la storia di sé e di chi l’ha vissuto: l’obiettivo dev’essere proteggere quelle opere dall’attacco dell’ignoranza, della corruzione e della mancanza di spirito comunitario. Cominciando a pensare che il denaro distratto dalla loro difesa e indirizzato alle varie biennali del cattivo gusto sia abuso di potere e malversazione.

I soldi dell’arte devono ricominciare ad andare in mano solo a chi l’arte la rispetta, non a giovani e vecchi festaioli che nel trip di un acido o nell’esaltazione di un tiro di cocaina trovano lo spunto geniale per una performance creativa. L’alternativa sono i crolli di Pompei e i teloni della Tod’s sul Colosseo. Buon lavoro, ministro Bray.

1 Commento

  1. Iacopo Sequi ha ragione ma purtroppo c’è ancora qualcuno convinto che possiamo campare facendo concorrenza ai cinesi e magari vendergli pure qualcosa…la cultura e il patrimonio artistico sono la nostra ultima spiaggia: dopo ci possiamo solo buttare a mare!

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