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Scritto da nel Media e Cultura, Numero 54 - 1 Febbraio 2009 | 3 commenti

Gaza: la guerra mediatica

Per dirlo con le parole di Uri Avnery (liberamente tradotte) “in questa guerra, la disparità di forze, tra le poche migliaia di combattenti di Hamas, scarsamente armati, e l'esercito israeliano è di uno a mille, forse di uno a un milione. Nell'arena politica lo scarto è ancora più grande. Ma nella guerra di propaganda è pressoché infinito.”
L'asimmetria, termine spesso utilizzato nel definire in generale il conflitto israelo-palestinese, e in particolare questo conflitto di capodanno a Gaza, ne è uscita esasperata, soprattutto a livello di rappresentazione e comunicazione. Innanzitutto alla fonte, date le limitazioni imposte da Israele ai giornalisti intenzionati a documentare ciò che avveniva nella Striscia (con l'eccezione di Al Jazeera, che ha visto crescere ulteriormente la propria popolarità), adducendo motivazioni di “sicurezza” (come se la presenza di reporter negli scenari di guerra fosse una novità). Le conseguenti proteste dell'International Federation of Journalists sono cadute nel vuoto. Così gli inviati delle principali testate internazionali trasmettevano da Israele, lontani, anche se non fisicamente, dal luogo in cui si consumavano gli eventi, con le scie di fumo sullo sfondo come principale testimonianza realmente “from Gaza”. Sicuramente questo ha influito sulla rappresentazione diseguale della guerra e sul modo in cui questa ha fatto presa sulle coscienze.
Ma parlare di mancanze o di fallimento dell'informazione, in questo caso come in altri (quello della guerra in Iraq su tutti), significa riconoscerle il ruolo di strumento indipendente, con l'obiettivo ultimo (non raggiunto) di informare correttamente i cittadini. Mentre, per lo meno a partire dalla guerra del Vietnam, le “democrazie belligeranti” sanno bene di aver bisogno di spostare l'opinione pubblica e allinearla alle esigenze governative, utilizzando l'informazione non solo come propaganda, bensì come vera e propria arma non convenzionale, parte integrante del conflitto.
La prospettiva chiaramente evidente, emersa nelle principali trasmissioni televisive, in molti quotidiani, nei commenti che si fanno eco l'un l'altro, è un riflesso della relazione politica intrattenuta dal paese in questione con Israele: a partire dagli USA con particolare vigore, per arrivare sulle più vicine sponde atlantiche, assistiamo alla collettiva adozione di una sola versione della storia, di una narrativa a senso unico. Dove se anche qualche spazio viene lasciato alle voci “discordi”, alla versione degli altri, questa si innesta su un contesto, su uno schema di lettura della realtà precostituito che risente del discorso dominante, che non può che pendere da un lato.
Rileggendo con occhio attento molti degli articoli sapientemente collezionati dai solerti autori del blog Knesset2009, si possono individuare alcuni di quei meccanismi che, depositandosi silenziosamente sul fondo del nostro immaginario, finiscono per costituire i cliché e le metafore influenti che guidano la comprensione dei fatti.
Anche in questa guerra, dunque, le parole stavano al fronte, in prima linea. A partire dall'utilizzo stesso del termine “guerra”, che, come ricorda Gideon Levy, da dizionario si riferisce a “un conflitto armato tra eserciti, tra state bodies (nazioni, stati) in operazioni militari di battaglia con la forza delle armi”, e perciò non risulta pienamente applicabile alla vicenda in questione, dato che da una parte manca lo stato, manca l'esercito, e non è appropriato nemmeno parlare di battaglie. Se di guerra si è trattato poi, la conclusione logica avrebbe dovuto essere la vittoria di una parte sull'altra, mentre qui Israele sostiene di aver colpito mortalmente Hamas, e quindi di aver vinto, mentre Hamas da parte sua canta vittoria perché è sopravvissuta (e ne è uscita con i ranghi ricompattati). Assistiamo dunque a una vittoria diffusa e nebulosa.
La guerra del linguaggio poi, si combatte a più riprese. Ad esempio, la decontestualizzazione dell'evento, che, strappato dal suo contesto storico, si ritrova collocato in un spazio vuoto senza prima né dopo. Importantissimo è decidere il punto d'inizio della narrazione (do you remember 9/11? La Storia iniziò quel giorno), che in questo caso viene fatto coincidere con la violazione della tregua da parte di Hamas (il 19 dicembre), senza considerare le vicende precedenti, dalle violazioni israeliane del mese di novembre allo stato di prigionia in cui la Striscia versava dalla vittoria elettorale di Hamas, e così via retrocedendo. Se l'altro per primo mi attacca, ovviamente ogni azione da parte mia rientra nella definizione di “autodifesa”.
Se prima si definisce contesto, inizio e svolgimento della vicenda, i discorsi successivi sulle proporzioni giuste o sbagliate dell'azione militare israeliana sulla sofferenza dei civili Palestinesi non sono altro che parte di una storia sbagliata.
Ecco dunque che vediamo fioccare improprie metafore e similitudini: Hamas come un individuo mentalmente disturbato che urla e batte alla tua porta minacciandoti di morte (il sindaco Bloomberg in uno show televisivo), e Israele attaccato da Hamas come un fantomatico bombardamento messicano delle città del sud degli USA (un funzionario israeliano, riportato da Akiva Eldar su El Pais), per menzionarne un paio.
Inoltre, ricorre frequentemente l'associazione Hamas-Iran (in particolare la locuzione “Hamas, Iran-backed terrorists”, che nell'articolo di Fabian Cohen sul Middle East Times compare 3 volte, come fossero una cosa sola), in modo da trasformare un'alleanza politica di convenienza ben particolare in quanto sembra trascendere la tradizionale frattura sciiti-sunniti (la cui natura è comunque da problematizzare e analizzare e non va data per scontata…), in un legame ferreo quasi fossero due teste di uno stesso corpo.
Per non parlare poi dell'utilizzo estensivo del termine “terrorismo”, divenuto soprattutto in questi anni post 11 Settembre un ombrello capiente sotto il quale ammassare le più diverse manifestazioni violente a prescindere dal loro scopo, in un calderone in cui mezzi e fini si confondono, senza che vi siano definizioni precise e condivise. Il terrorismo è una tattica, non un nemico. Una strategia violenta di intimidazione della popolazione civile, utilizzata nella maggior parte delle guerre, spesso in contesti di conflitto asimmetrico, nello specifico in caso di occupazione straniera. L'appellativo di “terrorista” generalmente lo si guadagna a seconda della giustezza o meno della causa, quindi, come dice Giglioli, “il terrorismo è la violenza degli altri”. Da qui, l'utilizzo del doppio standard (i terroristi amici non sono mai terroristi, e soprattutto non lo sono gli stati, che al massimo fanno la guerra) e l'emblematico caso di “Bin Laden, la metamorfosi del terrorista” (che quando ammazzava i sovietici era un liberatore della patria).
Ovviamente, come si ripete fino alla nausea, con i terroristi non si tratta, sono il Male Assoluto (decontestualizzato, come si diceva prima), obiettivo di una guerra senza fine, senza quartiere, e senza esclusione di colpi il cui unico risultato possibile è la distruzione finale. Cosa che, insomma, al Nemico leale non si fa. Il nemico è legittimato, umano, con lui si può parlare.
Nella maggior parte dei discorsi la parola “Hamas” va accompagnata da “terroristi”. Anche quando si vuole sottolineare la natura complessa, non univoca di questo che è anche un partito che ha vinto le elezioni, un movimento sociale radicato che fornisce servizi basilari alla popol
azione, eludere la parola “terrorismo” significa essere faziosi, mentre al contrario definirlo terrorista e basta va bene.
La metafora manichea della guerra dei Buoni contro i Cattivi, riproposta in tutte le salse dai mezzi di comunicazione di massa, in occasione dei più diversi conflitti degli ultimi anni e non solo, è utile anche per far passare la visione delle vittime civili come “effetto collaterale”, come prezzo inevitabile da pagare al fine del trionfo del Bene. Come ha detto Joe Scarborough in uno show della MSNBC, “Quanta gente abbiamo ucciso in Germania?” Le vittime, che da quando la guerra è guerra sono una componente essenziale di essa, sono state proposte come “errori” da parte di Israele, mentre da parte di Hamas sono state la principale arma a disposizione per accattivarsi l'opinione pubblica e tentare di creare pressione a livello internazionale, esacerbando e rendendo ancora più evidente la relazione asimmetrica tra le due parti in causa.
Allo stesso modo, chiunque tenti di approfondire le cause, o osi mettere in discussione la mitologia ufficiale che sottostà alla ragione e alla giustizia dei Buoni, rischia di essere messo alla berlina e di veder demolita ogni argomentazione dall'accusa di antisemitismo -o antiamericanismo, a seconda di chi rappresenta il Bene-, perché nella guerra assoluta chi non è con noi è contro di noi, e se è contro di noi è privo di legittimità.
Per parlare un po' dei fatti di casa nostra, senza accodarsi alla lunga scia polemica post-Anno Zero, si può notare come per l'ennesima volta l'arte del “parlare d'altro” si sia rivelata efficace: il dibattito spostato da ciò che avveniva a Gaza alla faziosità di Santoro, “ha fatto bene l'Annunziata ad andarsene, o no?” E via tutti a guardare il dito.

3 Commenti

  1. Complimenti Valentina,

    bellissimo articolo!

  2. Vale…che dire: ottimo articolo, scritto molto bene!
    Mi ritorna alla mente un testo capitale di De Benoist che ho riletto recentemente e di estrema attualità: “Terrorismo e guerre giuste” , consigliata lettura. A presto!

  3. Complimenti Vale, gran bell'articolo. Cercherò di farlo leggere il più possibile.

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