Pannella e la pena di morte: la diplomazia delle (giuste) cause perse?
Intendiamoci subito. Chi scrive condivide pienamente lo spirito e gli obiettivi dell'iniziativa italiana di presentare all'ONU una moratoria internazionale contro la pena di morte. Valuta anche positivamente tale profuso impegno all'interno di una coerente strategia tesa al guadagno di un profilo di spessore politico per il nostro Paese sia all'interno dell'Unione Europea, sia nella comunità internazionale. Pertanto, sono da riconoscere tutti i meriti possibili agli attori impegnati in un questa difficile ma giusta battaglia contro l'uso dell'esecuzione come strumento di giustizia legale nel XXI secolo.
Tuttavia, proprio ai fini della buona riuscita dell'operazione, non si può fare a meno di notare la grande complessità della partita e i concreti di rischi di fallimento che l'approvazione di una Risoluzione da parte dell'Assemblea Generale dell'ONU (AG) – il regno delle buone intenzioni tanto quanto, e soprattutto, della realpolitik – comporta. La moratoria sulla pena di morte è un obiettivo politico per cui vale la pena di agire con estrema cautela. Quella cautela che il dibattito italiano in questi giorni ha rapidamente accantonato, salutando con toni trionfali la decisione del Consiglio dei Ministri dell'Unione Europea di affidare all'Italia e alla Presidenza di turno, la Germania, la regia delle trattative. La strada è ancora tutta in salita, e cercherò di spiegare brevemente il perché.
La risoluzione dell'AG sarebbe un atto esclusivamente politico. Una moratoria internazionale rappresenta una solenne dichiarazione di impegno da parte degli aderenti a bandire la pena di morte dai propri ordinamenti penali per qualsiasi tipologia di reato – civile e militare. Non ha, dunque, alcun vincolo giuridico effettivo né per i firmatari né tantomeno per Stati terzi, bensì detiene la funzione di attestare un clima d'opinione internazionale con l'obiettivo di spingere i governi nazionali ad abolire la pena capitale laddove ancora si pratica. Se ne può concludere che non basta il semplice raggiungimento di una maggioranza in seno all'ONU, ma bisogna che si convincano Paesi come gli Stati Uniti, la Cina, il Giappone e gran parte dei Paesi arabi a farsi carico di una svolta, perché la Risoluzione in sé non li obbligherebbe a modificare i propri ordinamenti interni.
Come recitava un emendamento, mai più messo in discussione, approvato durante un primo tentativo proprio dell'Italia nel 1994 fallito con uno scarto di 8 voti in AG, rimane intatto il principio che “il diritto sovrano degli Stati [decide] le misure legali e penali appropriate per combattere il crimine”. Un apertura presumibilmente conscia del fatto che in molti stati africani e asiatici, particolarmente quelli che hanno ancora fresca l'esperienza di una sanguinosa guerra civile interna, o la stanno ancora combattendo, l'opinione pubblica ritiene la pena di morte un atto di giustizia adeguato per punire i responsabili di massacri efferati e crimini militari di vario genere, non vedendo ragione di abolirla. Pensiamo, per esempio, alla Serbia o all'Algeria. Senza contare i “pesi da novanta”, appunto gli USA o la Cina, dove non si intravedono segnali di alcun cambiamento di clima politico (che risponde però agli umori del popolo).
Con un poco romantico ma necessario esercizio di realpolitik, invece, sono molti anche gli Stati che “vorrebbero ma non possono”: quelli che non ci tengono ad inimicarsi nessuna delle due potenze votando contro la loro volontà all'ONU e facendo loro un dispetto dal costo abbastanza caro in termini politici o economici. Come ben sanno gli addetti ai lavori, i Paesi contrari alla moratoria faranno tutte le pressioni possibili per radicalizzare lo scontro e garantirsi il maggior numero di franchi tiratori in AG, dal momento che l'impatto mediatico di un eventuale buon esito risulterebbe alquanto scomodo a molti governi importanti. L'esperienza insegna che ce la possono fare.
In questo quadro, l'Italia si è assunta un impegno nobile ma piuttosto ostico per il quale, come ha recentemente segnalato la stessa Amnesty International fra le righe di un suo comunicato, una fretta eccessiva e non sufficientemente motivata rischia di pregiudicare l'effettività di un atto, lo ripetiamo, principalmente politico. In particolare il leader del Partito Radicale Transnazionale, Marco Pannella ha giocato un ruolo fondamentale di strenua “frusta” nei confronti del Governo italiano – soprattutto del Ministro degli Esteri Massimo D'Alema – e delle istituzioni europee, contribuendo – anche attraverso l'ormai inflazionato metodo dello sciopero della fame – ad accelerare i tempi, per sfruttare l'onda lunga dello sconcerto creato nell' opinione pubblica internazionale dall'esecuzione di Saddam Hussein.
Più volte negli ultimi tempi, Pannella ha apostrofato con la sua consueta verve provocatoria il governo tedesco per le sue esitazioni nel porre l'argomento all'immediato ordine del giorno, dimenticando – cosa grave per un politico della sua esperienza – le delicate regole della diplomazia e delle trattative multilaterali in sede ONU. E' vero che troppo spesso l'inerzia dei Governi porta ad un nulla di fatto nelle grandi cause, ma ciò non toglie che, data l'assoluta importanza della questione, se ne debba mettere a repentaglio l'efficacia politica di fronte alla ricerca del colpo spettacolare. Benché D'Alema abbia annunciato la presenza di Paesi extra-europei disposti a co-sponsorizzare l'iniziativa (si parla di Brasile, Nuova Zelanda e Sudafrica), la stampa estera, in primo luogo quella esterna all'UE, a sua volta sospettosamente disattenta a riguardo, non riesce a non far trasparire il sapore di unilateralità europea della richiesta. Il che rappresenta già una mezza sconfitta per una atto politico di portata ambiziosamente universalistica.
Un simile fare avventuriero i Radicali e il loro leader l'hanno già mostrato in Italia nell'ultima decina di anni con le lenzuolate di referendum su proposte degne di nota ma troppe volte eccessivamente spettacolarizzate, unilaterali e, in definitiva, auto-referenziali. Nel tentativo, ultimamente andato a vuoto, di convincere, e convincersi, che la politica dei palazzi sia solo un diabolico e insensato congegno per perditempo. Visto il modo in cui hanno “bruciato” quelle questioni e l'effettività dello strumento referendario, sarebbe il caso di fare notare a Marco Pannella che non sempre il mondo è come lo vorremmo.