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Scritto da nel Numero 15 - 16 Aprile 2007, Tempo e spazio liberi | 0 commenti

Scarti Cap. II Parte Prima

E se questo vento mi sbatte in faccia, ora, non me la può tagliare, non mi può ferire. Questo pensa Alessandro. Sarà lui, anzi, a tagliare in due il vento, a strapparlo con quella sua stessa faccia rotta che non può più patire nulla, come se fosse una freccia lenta e inesorabile, fendere il vento come un vela piegata e gonfia in mezzo al mare, come un muro di pietre a secco sul fianco della collina. Alessandro attraversa così il porto, questa notte del suo ritorno, con quei suoi passi invadenti, gambe larghe e braccia aperte, come battendo una marcia al rientro da una guerra dalla quale è sopravvissuto. Una guerra infinita in cui lui continua, purtroppo, a sopravvivere. Alessandro si muove per i pontili, tagliando per sentieri che sanno in pochi, mentre l'aria di mare gli riempie polmoni e viscere, facendogli bruciare la gola, la stessa cosa che succederà bevendo il vino che sta andando a rimediare, grazie ai quattro spiccioli che si è trovato addosso. Vino crudo, agrodolce, pensa che se ne vuole ingozzare stanotte, ingozzare. Non gli serve per dimenticare nulla, perché Alessandro sa che non potrà dimenticare le botte, mai, né la galera, o se stesso. Solo con il vino, e le poche altre droghe che ha potuto permettersi nella sua vita, se le ricorda diverse, tutte quelle cose, e ne inventa di altre, tutte da ridere o da sorridere. Sa bene che la sua faccia è così, rimarrà la stessa ogni mattina. Deforme, un libro su cui hanno scritto e inciso il suo destino con l'aiuto delle mani e di bastoni e pungoli. Alessandro così ogni volta che vede riflessa la sua faccia, da qualche parte, ci legge qualcosa di nuovo e d'identico, un brano della sua vita, un indicazione per il suo futuro. Ogni volta in cui non si ricorda chi è e che cosa ci sta a fare al mondo, o se sia bello starci o giusto, lo trova scritto sul libro dei segni che hanno posto sulla sua faccia, tra una cicatrice ed un callo osseo. E' l'unica cosa che sa leggere, non bisogna sapere le parole.

Alessandro ha freddo, è in camicia in mezzo alla notte di metà autunno, ma è euforico perché è di nuovo libero, è di nuovo fuori. Fuori non ha nulla e nessuno, ma libero per lui vuole almeno dire che i secondini non potranno più bastonarlo e i medici chiacchieroni non potranno più imbottirlo di pillole, anche se perlomeno quelle lo spegnevano per un po', gli davano quel tepore e quel sonno senza pensieri, come una televisione in un angolo, spenta ma con la lucina della corrente. A lui però non andava giù che fossero loro a decidere quando spegnerlo, che poi succedeva che così ricominciavano a bastonarlo, ma con più facilità, e lui non riusciva a fare né dire nulla, e allora si lasciava andare al tepore chimico, e le botte e gli insulti li sentiva sempre meno, sempre meno, la guancia sul pavimento, la bocca aperta, lo sguardo fisso sulla luce, tenue, finché non s'incrociano gli occhi e mille raggi sembrano esplodere dalla lampadina. E intanto i ghigni delle guardie si dimenano attorno al suo corpo, ma dopo poco ci perdevano gusto, con lui inerme, e la smettevano.

E i giorni così passavano. Con un ritmo un po' strano, ma passavano.

Ma stanotte è diversa per Alessandro, e lì al porto potrà addormentarsi di vino, in mezzo ad altri fantasmi d'uomini, e saranno tutti ubriachi uguali, e allora nessuno cercherà rissa con nessuno, anzi se ne staranno stretti a ridere un po', a scaldarsi.

Alessandro prova a ricordare come c'è finito in galera, e gli viene in mente quella storia balorda, quasi incredibile. Quasi al limite di un sogno, di un incubo, come forse è tutta la sua vita, forse, una specie di film, ne ha visti tanti all'oratorio, quei film dove non sai bene se ridere o essere triste o fare la faccia intelligente, tragicomico, tra-gi-co-mi-co, gli ha spiegato una volta il prete, e da allora lui quella parola la usa proprio in quelle situazioni che se le stesse vedendo da fuori, si metterebbe a ridere, e quando invece c'è dentro mani e piedi, non fanno ridere per un cazzo.

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