TFR: un luogo chiamato utopia
C'era una volta la vecchia liquidazione…
In ogni caso di cessazione del rapporto di lavoro subordinato, il prestatore di lavoro ha diritto ad un trattamento di fine rapporto. Tale trattamento si calcola sommando per ciascun anno di servizio una quota pari e comunque non superiore all'importo della retribuzione dovuta per l'anno stesso divisa per 13,5. La quota è proporzionalmente ridotta per le frazioni di anno, computandosi come mese intero le frazioni di mese uguali o superiori a 15 giorni. Così recita l'art. 2120 del codice civile. Per evitare fraintendimenti, giova precisare come tale somma, prima dell'entrata in vigore dell'attuale riforma, fosse interamente esigibile dal lavoratore contestualmente all'atto stesso della cessazione del rapporto di lavoro in essere. Il citato articolo, stabiliva anche a favore del lavoratore, la possibilità di condizioni di miglior favore [laddove] previste dai contratti collettivi o da patti individuali.
Da una completa ed attenta lettura dell'art. 2120 e seguenti, si evince chiaramente come la tutela del lavoro animi la ratio stessa del provvedimento: di fatto, il TFR, che a tutti gli effetti si configura come una detrazione mensile dalla busta paga del lavoratore dipendente, rimaneva in ogni momento ad intero appannaggio di questo.
Tale fruibilità ed esigibilità immediata, laddove se ne presentassero i requisiti, era sempre e comunque salvaguardata dall'inflazione attraverso un procedimento di rivalutazione garantita, pari al 75% dell'indice Istat più un punto e mezzo, entrambi a carico del datore di lavoro.
Recita l'adagio: a pensare male si fa peccato, ma spesso ci si avvicina al vero…
In una fase epocale di transizione, con le incertezze che fisiologicamente l'accompagnano, è singolare prendere atto di come nessuno abbia ancora azzardato cifre sicure sulle rendite garantite della previdenza completare, le stesse in cui dove dovrebbero confluire in modo più o meno trasparente(silenzio-assenso) i TFR di milioni d'italiani.
Ma allora perché sovrapporre ad una procedura funzionante, che attraverso l'istituzione del fondo di garanzia TFR garantiva anche i lavoratori frodati, una seconda dal destino incerto?
La risposta può essere cinicamente ricercata nell'unione di due istanze, una di matrice ideologica, l'altra prettamente economica.
In primo luogo, bisogna considerare come lo stato, a torto o a ragione, consideri patriarcalmente i propri cittadini come figli minorenni incapaci di disporre in modo adeguato del proprio destino, e quindi dei propri investimenti. La Repubblica Italiana, come un padre bonario ma inflessibile, sta decidendo dove investire i nostri risparmi per quando diventeremo grandi… Se a qualcuno, putacaso i suoi soldi servissero subito, dovrà rassegnarsi: una volta aderito ai fatidici fondi, al momento della pensione, potrà esigere soltanto la metà di quanto ha versato…
La seconda ragione, questa invece di natura genuinamente economica, rimanda all'entità della cifra presunta che sarà trasferita: il Tesoro dovrebbe trovarsi una disponibilità di 6 miliardi e i fondi pensione un flusso aggiuntivo di 5,5 miliardi a fronte di un patrimonio 2006 stimabile, per i negoziali, a circa 8,5 miliardi, euro più, euro meno. Considerato come il balletto delle cifre si muova nell'ordine di grandezza dei miliardi di euro, era del tutto prevedibile che i soliti noti: banche, assicurazione, e l'omnicomprensiva INPS, giocassero su diversi tavoli per una “equa” spartizione di questa sostanziosissima torta.
Il presunto elemento libertario e positivo della riforma, riscontrabile nel maggior potere decisionale del lavoratore-investitore, viene enormemente ridimensionato se si tiene in debita considerazione la peculiarità del mercato finanziario in Italia. Nella nostra strana penisola le liberalizzazioni sono state storicamente accompagnate da un indiscriminato aumento dei prezzi e dei disservizi (telefonia ed assicurazioni su tutte), in secondo luogo è bene precisare come nella riforma in esame, sia fortemente accentuato l'elemento etimologicamente alienante ascrivibile alla presunta liberalizzazione: i lavoratori posso liberamente disporre soltanto della metà di ciò che possiedono.
L' Italia dei trust e delle concentrazioni finanziarie, degli innumerevoli istituti di previdenza[1] e di un sindacato vorace ed omnicomprensivo, era forse il peggior banco di prova per l'imbastardimento di uno dei capisaldi dell'economia classica: la liberalizzazione acefala.
Il cartone del Monòpoli è stato ripiegato, così come i tratti di penna che rappresentano le transazioni sui lucidi degli economisti. A bocce ferme, la sensazione disarmante che fuoriesce cristallina dal nuovo groviglio di norme, precetti ed informative, è che anche nella migliore delle ipotesi, i nostri soldi saranno un po' meno nostri.
[1] inps, enplas, inpgi, solo per ricordarne alcune…