Export mania
Risale alla notte di tempi il desiderio, umano e perverso, di “esportare” la propria cultura giuridica, economica, sociale e religiosa al di fuori dei limiti territoriali. Da che l'uomo è entrato in contatto con l'altro ha conosciuto lo spasmodico desiderio di uniformarlo a se stesso. Poiché se è vero che tutto ciò che non si conosce, in qualche modo fa paura, è altrettanto vero che ergersi al ruolo di civilizzatori è il miglior modo di mascherare la superbia peculiare dell'ignoranza, in tempo di pace e il bieco interesse, in tempo di guerra.
Tuttavia, non esiste esempio nella storia in cui i vincitori non siano stati, presto o tardi, trasformati in vinti, spesso sconfitti, ironia della sorte, da quelle armi che essi stessi avevano ideato. Mirabile esempio di questo paradosso, attinto dalla storia contemporanea, potrebbe essere la lenta ma inesorabile decadenza dell'Europa quale centro nevralgico della politica mondiale a partire dalla fine del XIX secolo.
Quando intorno agli anni '80 del secolo, l'industrializzazione funse da motore propulsore alla nuova spinta imperialista che investì i paesi asiatici ed africani, la maggior parte degli illustri uomini occidentali, era convinta del fatto che la colonizzazione di paesi extra-europei non fosse esclusivamente legata a ragioni d'interesse economico, ma costituisse una vera e propria missione civilizzatrice nei confronti di società definite “stagnanti”. Secondo le parole di Curzon, allora sottosegretario agli esteri del governo britannico, “Nell'impero abbiamo trovato non solo la chiave della gloria e della ricchezza, ma il richiamo del dovere e il mezzo di servire l'umanità”. Curzon allora non poteva sapere che il processo di espansione appena iniziato, in realtà non segnava altro che l'apogeo della storia eurocentrica.
Gli imperialisti ritennero, utopisticamente, che la detenzione del nuovo sapere tecnologico-industriale fosse ragione necessaria e sufficiente alla detenzione del potere. Nonostante per molti decenni tale ipotesi si rivelò veritiera, poiché l'indiscutibile superiorità tecnica rendeva loro estremamente facile imporre la propria volontà attraverso l'uso della forza, ciò di cui non si tenne conto, per eccesso di superbia, fu che il sapere non è, e non potrà mai essere, monopolio di una data civiltà. Nel momento in cui i popoli colonizzati iniziarono ad impadronirsi di quelle stesse tecniche, nel momento in cui le loro condizioni igienico-sanitarie cominciarono a migliorare, causandone conseguentemente un accrescimento demografico senza precedenti, la forza non bastò più a determinare l'assoggettamento delle popolazioni imperiali.
Bisognerà attendere la fine della seconda guerra mondiale, per vedere i grandi imperi coloniali sgretolarsi ad uno ad uno, ma basti pensare che fra il 1945 e il 1960 più di quaranta paesi, con una popolazione pari a 800 milioni, si ribellò all'imperialismo europeo conquistando l'indipendenza, così che in poco più di sessant'anni di quelle che furono grandi potenze non restavano che le vestigia.
Ognuna delle storie dei paesi asiatici, così come di quelli africani, meriterebbe una trattazione a sé, che saprebbe rendere giustizia delle peculiarità dei singoli popoli. Tuttavia, ciò che qui c'interessava maggiormente, era sottolineare l'ironia che ha storicamente investito coloro i quali credevano, e coloro i quali ancora credono, nella “civilizzazione” come strumento di assoggettamento di società ritenute inferiori alla propria. Vi erano nazioni nel XIX secolo, come il Giappone o la Cina, che non desideravano altro che continuare a vivere nel rispetto delle loro tradizioni, secondo le proprie risorse, compiendo in modo indipendente il naturale processo evolutivo. Nel momento in cui tali nazioni furono costrette ad aprire le loro porte alla potenza europea, si innescarono processi irreversibili e incontrollabili, che le portarono ad essere le naturali contendenti dell'egemonia occidentale. Purtroppo però sino a quando la storia narrata nei nostri libri continuerà ad essere fondata su di una visione eurocentrica, sarà difficile arrivare a comprendere appieno la realtà contemporanea.
Vorremmo, in conclusione, rispondere a chi come Curzon si basava su di un ingenuo calcolo ottimistico, finalizzato alla previsione storica, basandosi esclusivamente sulla supposta superiorità del proprio paese con una frase di Paul Valèry: “[...] se l'esperienza storica e qualcosa di cui bisogna sempre tenere conto, i risultati tradiranno tutte le aspettative e smentiranno tutte le previsioni”.