Il mostro politico
E' il ventinove gennaio 1975. Centinaia di persone, tra studenti, ricercatori, insegnanti e semplici curiosi, si accalcano in una delle aule del Collège de France nella speranza di trovare un posto per assistere alla lezione che avrà inizio tra pochi minuti. Un uomo entra frettolosamente in aula. D'improvviso cala il silenzio. L'uomo si dirige verso la cattedra scavalcando i corpi che da essa lo dividono. Posiziona i suoi appunti, allontana i registratori, accende il microfono. Così come in uno stadio durante i calci di rigore di una finale mondiale, allo stesso modo al Collège de France, sembra che il tempo si sia fermato. L'uomo in cattedra è Michel Foucault. La lezione che sta per iniziare quella sul mostro politico. Semplice meteora all'interno del corso su Gli anormali e il potere di normalizzazione della psichiatria nella società moderna, la figura del mostro politico offre tuttavia uno spunto di riflessione, attraverso la diagonalizzazione storica, di temi quanto mai attuali nella cultura contemporanea. Perché il mostro politico è un personaggio senza tempo, o meglio, il mostro politico è un personaggio di ogni tempo, che fa problema tanto in ambito sociale quanto in ambito giuridico.
Nella misura in cui, nel corso del XVII secolo, il governo dei pochi si reggeva sulla concezione di uno stato di stampo assolutistico, il crimine in quanto tale era considerato come un reato compiuto nei confronti del re. Lesione degli interessi, della volontà, in qualche modo della stessa fisicità del sovrano, che si esprimeva attraverso la legge. Ogni atto criminale era di fatto una piccola insurrezione e allo stesso tempo un regicidio. Compito della commissione giudicante era quella di ristabilire l'integrità del potere leso, ma non attraverso una semplice “riparazione dei danni”, quanto attraverso una punizione esemplare. La pena comminata al reo, rappresentava la rivendicazione sovrana di ristabilimento del proprio potere, attraverso l'esercizio del terrore.
Nascono da questa particolare concezione del crimine gli atroci castighi di cui la storia ci offre innumerevoli testimonianze. Basta portare qui come esempio la massola, esercitata dalla giurisprudenza avignonese fino al XVII secolo. Questa pratica consisteva nel legare il criminale, occhi bendati, ad un palo; egli, dopo aver ricevuto la benedizione dal confessore, veniva ucciso dal boia in modo alquanto rapido: un colpo sulla tempia, inferto con una mazza di ferro. Solo a partire da questo momento però inizia il vero supplizio; poiché ciò che più importa non è il castigo in se stesso, quanto il rituale, l'aurea sacralità che lo investe, lo ricopre, lo avvolge. Dunque è sul cadavere del reo che si accanisce maggiormente il carnefice: recidendo la gola, spezzando i nervi, aprendo il ventre dal quale estrarrà il cuore, il fegato, i polmoni, per esporli su ganci di ferro posizionati tutt'intorno al corpo inerme, così che sotto gli sguardi dei pochi che hanno il coraggio di assistervi, sia ristabilito il potere violato. Esemplare notevole, peraltro, di carità cristiana.
Nello stato assoluto dunque non c'è crimine che ponga problema alla giurisdizione sovrana, per quanto un reato crei scandalo attraverso la sua atrocità, esisterà sempre una punizione adeguata, altrettanto atroce, altrettanto scandalosa.
Il problema si pone al contrario nel momento in cui la rivoluzione borghese del XVIII secolo porta alla conquista di nuove forme di statualità. Non semplice appropriazione di forme preesistenti, riadattate, riorganizzate, da una diversa classe sociale ma piuttosto pura invenzione di tecnologie di potere e fra esse, nello specifico, del potere di giudicare e conseguentemente punire.
Il crimine smette, con l'avvento della rivoluzione borghese, di essere considerato come reato nei confronti del re ed inizia a rappresentare una violazione del patto sociale. Quello stesso patto sociale che sta alla base della cultura moderna. Il reo non è più dunque il regicida, ma colui che viola l'interesse di tutti per anteporvi il proprio. L'uomo che attraverso la rottura del patto sociale torna allo stato primitivo, in cui non vige la legge della comunità ma quella del singolo. Piccolo despota quindi, tiranno in miniatura. Spaventoso e infimo allo stesso tempo, quasi ridicolo, paradossale. Sarà questo un tema, che per evidenti ragioni storiche, avrà notevole fortuna negli anni della rivoluzione francese. Poiché se è vero, che il criminale è il piccolo despota, colui che trasgredendo il patto sociale fa del proprio interesse una legge arbitraria, diventa chiaro che il trasgressore per antonomasia, il re di tutti i trasgressori è proprio il monarca. L'uomo che si eleva al di sopra delle leggi che egli stesso promulga, l'uomo che maschera la propria volontà sotto la parvenza della volontà comune, l'uomo che non rompe un patto, semplicemente si rifiuta di sottoscriverlo.
La storia è ricca di questi piccoli grandi mostri politici, tutti figli più o meno legittimi di Luigi XVI, criminali per statuto, delittuosi nella loro stessa essenza, spaventosi e paradossali, capaci di scrivere la storia di un popolo e contemporaneamente recitarne la parodia. Dal piccolo uomo dalle mani tremanti, che nascosto nel suo bunker chiede dolci al cioccolato, mentre sulla sua coscienza pesano milioni di morti, al rampollo di buona famiglia che continua a raccontare favole in una scuola elementare mentre il suo paese è stato messo in ginocchio, passando attraverso l'imprenditore intraprendente che fra una partita di calcio ed uno show televisivo decide delle sorti del proprio paese. Uomini arroganti e ridicoli nello stesso momento, ma potenti, incredibilmente potenti.
Un problema di non poca importanza nasce con la rappresentazione del mostro politico: una volta che esso sia riconosciuto ed incriminato a chi spetta giudicarlo, a chi comminare la pena? Nel momento in cui decide di non sottoscrivere il patto sociale, egli difatti si pone al di fuori della legge, la rifiuta, la disconosce, perde dunque il diritto di rientrarvi nell'atto del giudizio, poiché non si può applicare una legge a chi non né ha mai riconosciuto l'esistenza. Saint-Just pensava che “il diritto degli uomini contro la tirannia è un diritto personale”, ciò significa che tutti hanno diritto al giudizio, tutti hanno diritto ad infliggere la propria personale pena. Ma erano i tempi della rivoluzione francese, certo animati da ideali di uguaglianza, fraternità e libertà, in cui però esistevano ancora patiboli insanguinati da teste mozzate, le pene capitali erano all'ordine del giorno, barbarie totalmente estranee alla nostra cultura di uomini evoluti, liberali e democratici. Problema di non facile soluzione certo e di grande attualità, se si pensa che ancora oggi c'è qualcuno che si interroga su questioni simili. Ad esempio, di fronte ai grandi delitti perpetuati contro l'umanità, alcuni, i più ingenui, credono che il giudizio spetti ad un tribunale internazionale, altri, molto meno ingenui, credono spetti esclusivamente a coloro che hanno contribuito a liberare il mondo dalla tirannide.
Non è certo nostro compito, né tanto meno mia intenzione, porre soluzione ad un problema di tale portata. Nell'arengo si raccontano storie, quella del mostro politico è solo una fra le tante.
Non nego però, che il giorno che l'appresi attraverso la lettura degli scritti di Foucault, man mano che le sue parole delineavano il profilo di questo personaggio, sottolineandone tanto l'aspetto temibile (caratteristica di chi elevandosi al di sopra della legge, e dunque della comunità da essa rappresentata, si pone nella condizione di sentenziare, senza mai essere sottoposto a sentenza, di “punire”, rimanendo di fatto impunito), e allo stesso tempo, sottolineandone l'aspetto paradossale, attraverso una fisicità ed una gestualità quasi ridicola che sembra essere peculiarità ed elemento squalificante di tutti i grandi mostri politici, il volto che si dipingeva di fronte ai miei occhi, via via che la lettura proseguiva, non era propriamente quello di Luigi XVI deceduto tre secoli or sono, ma piuttosto quello di un uomo quanto mai attuale e che gode di ottima salute.
Ad ogni epoca dunque, i propri mostri, ad ogni epoca il diritto/dovere di discutere di tali mostri, di riconoscerli, e perché no, almeno talvolta anche di giudicarli.