Est modus in rebus
“Andando a votare domani per la nuova Assemblea Legislativa noi sostituiremo ancora una volta il potere legale al potere legittimo. Il primo, preciso, di una limpidezza e di un rigore apparentemente perfetti, atomizza i votanti in nome del suffragio universale. L’altro è ancora embrionale, sparso, oscuro anche a se stesso. Per il momento esso fa tutt’uno con il vasto movimento antigerarchico e libertario che si incontra ovunque, ma che non è ancora per nulla organizzato”. La firma di questo paragrafo è quella di Jean-Paul Sartre, apposta alla vigilia delle elezioni politiche francesi del 1973 in calce a un articolo pubblicato sul numero 318 di Les Temps Modernes intitolato Elezioni, trappola per gonzi (Élections, piège à cons). Quel pezzo inizia trattando la questione del diritto di voto a seguito della Rivoluzione del 1789, rimarcando come non ci fosse da parte del popolo la possibilità di appropriarsi della repubblica bensì solo quella di indicare in una figura della classe dominante un supplente di potere. Altro che un rappresentante nelle istituzioni!
Facciamo un passo indietro. Benché fosse conscio della grandezza e dell’immortalità della sua poesia, e non avesse risparmiato i lettori dallo specificarlo nel terzo libro delle Odi, non credo che quando Orazio scrisse che “c’è una misura nelle cose” immaginasse un futuro tanto luminoso per una frase solo all’apparenza di grande semplicità. Ebbene, andiamo avanti nel citare il Poeta. “Esiste una misura nelle cose ed esistono determinati confini al di là e al di qua dei quali non può esservi ciò che è giusto”. Prendiamo questo ragionamento come spunto per trattare l’opportunità di andare o meno alle urne domenica, e tracciamo un filo rosso fra Orazio, Sartre e le elezioni italiane del 2018.
Innanzitutto, siamo di fronte a un panorama politico per nulla variegato. Le tre forze che si sfidano presentano programmi ridicoli quando non tragici, con proposte irrealizzabili, inutili o semplicemente irrispettose delle vite dei cittadini della repubblica e di chi a questa repubblica si rivolge nella speranza di trovarvi un baluardo di democrazia e giustizia sociale, sbattendo invece contro un muro di preconcetti e bassezza culturale che (questo sì) è perfettamente rappresentato nell’interezza dell’arco politico parlamentare. Di quello passato e di quello che verrà: già, perché tutti parlano di sicurezza nelle strade, di aiuti alle famiglie, di creazione (ex machina) di posti di lavoro o di soldi per chi non lavora. Nessuno ne motiva correttamente la fattibilità, i passaggi necessari, la sostenibilità dei costi e via dicendo; e quando qualcuno lo fa, snocciola miliardi di euro come se fossero niente. La realtà è che i protagonisti dei tre poli (destra, centro e cinquestelle) non sanno di cosa parlano e cercano solo di attirare l’attenzione di possibili nuovi elettori. La sinistra, in lizza con nomi che dire imbarazzanti è dir poco e con programmi che dire nulli è dir nulla, latita secondo una tradizione ormai più che decennale.
A questo gioco delle parti si può dire: io non ci sto. C’è una misura nelle cose, scrisse Orazio; e se questo concetto può essere universalmente applicato, la misura è colma. Siamo ben oltre i limiti di accettabilità di una classe politica pressoché interamente fallimentare, in cui si sventolano le bandiere di risultati scarsi e tardivi per mascherare un attacco violento ai diritti dei lavoratori e soprattutto degli esseri umani. Questo è intollerabile, perché povertà, malattie ed effetti delle guerre dovrebbero essere al primo punto degli ordini del giorno di qualsiasi governante di un pianeta civilizzato. Come potremmo mai spiegare a dei visitatori alieni che abbiamo delle frontiere e che per quelle uccidiamo e lasciamo morire milioni di animali della nostra stessa razza umana?
A questo dobbiamo riferirci, a mio parere, quando ci chiediamo se votare; perché degli ideali e della paura si sono riempite le urne elettorali per troppo tempo. Riprendo a citare Sartre, con vari ma rispettosissimi omissis dovuti alla complessità del testo: “In una parola, quando voto abdico al mio potere e implicitamente affermo che noi, i votanti, siamo sempre altri da noi stessi e che nessuno di noi, in ogni caso, può lasciare la serialità per il gruppo se non grazie ad interposte persone. Votare è indubbiamente, per il cittadino serializzato, dare il proprio voto a un partito, ma è soprattutto votare per il voto. L’elettore deve restare coricato e penetrarsi della propria impotenza; così sceglierà dei partiti perché essi esercitino la loro autorità e non la sua propria (…)”. Questo è un tema a cui i cinquestelle ritengono di fornire una soluzione tramite la convocazione internettiana degli iscritti, ma ci si rende ben conto che non funziona: la crisi democratica di quel movimento è sotto gli occhi di tutti, e fa anzi sembrare che i partiti d’impostazione classica o novecentesca possano vantare una selezione interna basata su un’insiemistica di rappresentanza che, in piccolissima scala, potrebbe anche avere un qualche senso.
Il problema, invece, rimane perché al centro della questione come accennato prima non c’è l’essere umano come persona ma in qualche modo come interprete di sé stesso. Più avanti nel suo saggio, Sartre scrive quanto segue. “L’insieme delle istituzioni della democrazia borghese mi sdoppia: ci sono io e tutti gli Altri che mi si dice che io sono (Francese, soldato, lavoratore, contribuente, cittadino, ecc.). Questo sdoppiamento ci fa vivere in quella che gli psichiatri chiamano una crisi di identità perpetua. Chi sono, insomma? Un altro identico a tutti gli altri e abitato da questi pensieri di impotenza che nascono ovunque e non sono pensati in nessun luogo, oppure sono me stesso? E chi vota? Non mi riconosco più”.
Si tratta di un punto importantissimo in una riflessione di questo genere. Dov’è che la misura è colma? Molti mi risponderebbero che quel punto arriva quando la tenuta democratica è messa in crisi. E allora, nel nostro caso, corriamo questo rischio? Per vent’anni, a più riprese, governi di destra hanno provato a far approvare riforme iperliberiste e del tutto contrarie alla moralità civile di un paese fondato sul lavoro, come recita l’inizio della sua Costituzione. Mi pare proprio che non ci siano riusciti, e che invece siano state le istituzioni stesse a tollerare che questi attacchi venissero sferrati con successo dagli ultimi governi, si dicano essi tecnici o di larghe intese. Chi ha guidato questi governi, chi li ha animati? Proprio coloro che avversano la destra come il nemico da battere, il pericolo da contrastare in aula con una forte rappresentanza.
Care amiche e cari amici, leggete l’Arengo del Viaggiatore e perciò avete certamente interesse e competenza dell’agone politico. Sartre conclude il suo pezzo scrivendo che “votare, non votare, è la stessa cosa. Qualunque cosa si faccia a questo proposito non si sarà fatto nulla se allo stesso tempo non si lotta”. Ed è proprio così; senza stare a tirar fuori tanti discorsi sulla democrazia diretta o sull’anarchia, quello che mi sento di affermare è che domenica 4 marzo non è tanto importante quello che si fa dentro il seggio, ma quello che come ogni altro giorno si fa fuori dal seggio per affermare gli unici valori che contano, quelli della libertà e dei diritti umani, ossia della civiltà con la sua giustizia sociale. Parole che restano tali segnando una ics con una matita, ma che diventano l’arma di riscatto di una coscienza quando questa sa determinare nel corpo che abita una mossa in più verso il destino ineluttabile del pianeta: un mondo di fratelli, di pace e di lavoro.