Il problema della scienza nella speculazione kantiana
Königsberg fino al 1945 è stata capoluogo della Prussia. Oggi si chiama Kaliningrad e fa parte della Russia. Qui è nato e vissuto Emanuele Kant (1724-1804),
Il problema che il grande filosofo tedesco pone al centro della sua attenzione e che assorbe gran parte della sua ricerca speculativa è apparentemente semplice e lineare: “Vedere criticamente se e come sia possibile la metafisica in quanto scienza”.
Il problema viene posto e analizzato nella Critica della ragione pura che è considerata l’opera principale del filosofo tedesco. A questo ambito di ricerca Kant ne associa altri due, strettamente collegati col precedente, che riguardano la fondazione della matematica e della fisica come scienze. Ma nell’ottica kantiana questi si configurano come implicanze o corollari, anch’essi peraltro essenziali, del problema centrale che resta appunto quello della scienza metafisica.
I termini del problema, che si rivelano tutt’altro che semplici, Kant li definisce nella Introduzione alla Critica e, successivamente, vengono meglio chiariti ed esplicitati nell’opera Prolegomeni ad ogni futura metafisica che si presenterà come scienza che il Filosofo scrisse con l’intento di chiarire e commentare alcuni passi della Critica che erano apparsi poco chiari.
La soluzione del problema impegnò per molti anni il metodico filosofo di Königsberg. Infatti sull’argomento pubblicò due edizioni della Critica della ragion pura, rispettivamente, nel 1781 e nel 1787 e, tra l’una e l’altra, nel 1783 scrisse i Prolegomeni.
Kant, pur avendo una formazione di chiara matrice illuministica, rivolge una particolare attenzione al problema metafisico. Nella prima edizione alla Critica (1781) osserva, con rammarico, che una volta la metafisica era considerata la “regina di tutte le scienze mentre nell’età moderna essa è disprezzata, abbandonata e tenuta in poco conto”. Eppure, osserva il Filosofo, i problemi dell’anima del mondo e di Dio, che rappresentano l’oggetto della metafisica, coinvolgono la vita e il destino dell’uomo. Contro l’indifferentismo imperante Kant si fa carico di “Istituire un tribunale che stabilisca e garantisca, una volta per sempre, le sfere legittime della metafisica perché si possa costruire un sistema , in una prospettiva stabile e sicura, anche se il tribunale dovrà condannare pretese prive di fondamento”.
Nel sistema kantiano, come vedremo, la soluzione di questo problema speculativo bisogna cercarla oltre la Critica della ragion pura e cioè nella Critica della Ragion pratica del 1788 e nella Critica del giudizio del 1790.
Lo scenario culturale dell’epoca in cui si sviluppa la ricerca kantiana (la seconda metà del ‘700) era dominato da due movimenti: il <Noologismo> (che poi Hegel chiamerà <Razionalismo>) e <l’ Empirismo>. Kant nella sua indagine non intende seguire la scia dei <Noologisti> (o razionalisti) perché questi, partendo dalle idee innate, restano bloccati in esse e non possono giustificare, se non dogmaticamente, la corrispondenza tra idee e realtà esterna al soggetto. Inoltre gli stessi spingono la ragione in ricerche che vanno al di là delle sue reali possibilità. Kant però dichiara di non volersi avventurare neanche sulla strada tracciata dagli empiristi perché, con Davide Hume (1711-1776), era finita nello Scetticismo. Hume infatti, basandosi esclusivamente sull’esperienza , aveva demolito sia la scienza che la metafisica.
In questo compito Kant dichiara di non voler essere né dogmatico né scettico: intende impegnarsi , con rigore e senza pregiudizi, indagando sulle capacità conoscitive dell’uomo e sulla facoltà stessa del conoscere. E’ l’atteggiamento <critico> peculiare del grande Filosofo tedesco. Occorre preliminarmente precisare che l’indagine, pur avendo in prospettiva l’orizzonte metafisico, si sviluppa ripiegandosi su di un piano prettamente gnoseologico, cioè della conoscenza..
Kant avvia la ricerca prendendo le mosse da un’acuta notazione dell’ empirista scozzese Davide Hume. Questi nel Trattato sulla natura umana (1739), aveva osservato che “l’unico fondamento solido che noi possiamo dare alla scienza dell’uomo si basa necessariamente sull’esperienza e sull’osservazione”. Secondo Hume è cosa vana voler dedurre una causa o un effetto senza l’aiuto dell’esperienza; soltanto essa può dirci che ad un effetto ne segue un altro, ma non si può affermare che al primo necessariamente segue il secondo. Accade, in sostanza, che dopo la costante congiunzione di due fenomeni, noi per abitudine siamo portati ad aspettarci l’uno quando appare l’altro. Ma nessuno, per aver visto un solo corpo muoversi, spinto da un altro, può inferire che ogni altro corpo si muoverebbe in un caso analogo. Perciò tutte le illazioni tratte dall’esperienza sono credenze e non deduzioni scientifico-oggettive. In definitiva le leggi della fisica e della scienza in generale, e il principio di casualità in particolare, altro non sono che credenze consolidate dall’abitudine.
Le argomentazioni humiane non fanno una grinza per chi si pone dal punto di vista dell’empirismo. Ma la posizione di Kant è decisamente diversa. Nei Prolegomeni egli afferma che si guarda bene dal “seguirlo nelle conseguenze che provenivano solo dal fatto che egli (Hume) non si propose la questione nella sua integrità, ma si fermò solo su una parte che non può offrire nessuna spiegazione senza involgere il tutto” .
Kant osserva che se la conoscenza si realizza mediante un processo di adeguamento del soggetto all’oggetto, l’obiezione di Hume è valida, ma se nell’atto conoscitivo è la natura a gravitare intorno al soggetto, se cioè è la realtà ad adeguarsi a principi propri del soggetto, ponendosi come legislatore del mondo naturale, allora l’osservazione di Davide Hume cade.
Il padre del criticismo propone appunto di invertire il tradizionale rapporto tra soggetto ed oggetto, seguendo il procedimento analogo a quello operato da Copernico nel campo dell’astronomia. Per analogia avremo allora un sistema <egocentrico> corrispondente a quello eliocentrico di Copernico.
Rovesciando il rapporto conoscitivo si pone l’esigenza di un esame rivolto non già agli oggetti di conoscenza , ma al soggetto conoscente, più precisamente al nostro modo di conoscere. Se il soggetto illumina e determina con leggi e principi propri il mondo della natura, occorre ricercare quali siano queste leggi e questi principi, prescindendo dall’esperienza. In questa formulazione è racchiuso il senso ed il significato della Critica della ragion pura.
All’origine dell’atto conoscitivo Kant pone il <molteplice sensibile>, cioè le sensazioni come modificazioni del soggetto. Il molteplice sensibile viene ordito entro la trama delle forme proprie della sensibilità che rappresenta la prima fonte di conoscenza. Queste forme vengono individuate nello <spazio> e nel <tempo> che non sono essenze reali né concetti, ma forme pure di intuizione sensibile non legate all’esperienza.
Nel processo conoscitivo le rappresentazioni sensibili esterne ed interne vengono ordinate nelle forme spazio-temporali, diventando così <intuizioni fenomeniche>. Per semplificare, <l’intuizione fenomenica>si può immaginare come una specie di macchina fotografica, in costante funzione automatica, la cui struttura impressiona i dati delle percezioni interne ed esterne per fornirli, inquadrate nello spazio e nel tempo, all’intelletto che, a sua volta, li sviluppa secondo una propria struttura.
L’intelletto, facoltà attiva, unifica il molteplice sensibile delle intuizioni impiegando funzioni proprie che sono le categorie, capacità giudicatorie e unificatrici. Kant enumera dodici categorie definendole “concetti che prescrivono leggi a priori ai fenomeni e perciò alla natura come insieme di tutti i fenomeni”.
“Le intuizioni sensibili” non realizzano ancora la conoscenza, ad essa si perviene soltanto a livello di concetti da intendere sempre in sintesi con la materia rappresentata appunto dalle “intuizioni”.
Dopo questa necessaria premessa esplicativa, possiamo ritornare ai problemi enunciati all’inizio, precisando che la ricerca si sposta adesso sul campo dei giudizi perché, nell’ottica kantiana, conoscere significa appunto formulare giudizi. In questo senso, se identifichiamo la conoscenza con la scienza, come fa Kant, potremo stabilire la validità della scienza qualora esistano dei giudizi che, almeno nella forma, prescindano dall’esperienza. Se non fosse dato questo elemento a priori, si resterebbe nella morsa dell’obiezione di Hume.
La logica formale, ereditata da Leibnitz, offriva a Kant due tipi di giudizi: analitici e sintetici. I giudizi analitici, che caratterizzano la speculazione dei razionalisti, hanno il pregio di essere <a priori>, ma non sono estensivi essendo soltanto esplicativi. I giudizi sintetici, invece, propri degli empiristi, sono estensivi, vale a dire introducono note di novità, ma non quelle dell’oggettività perché sono <a posteriori> . Questi due tipologie di giudizi non soddisfano il pensatore di Königsberg perché né gli uni né gli altri possono produrre e giustificare la scienza. Questa potrà essere fondata da un tipo di giudizi che siano ad un tempo “sintetici” e “a priori”.
Sono possibili simili giudizi?
Gran parte della ricerca kantiana è volta a giustificare i <giudizi sintetici a priori> che rendono possibile la scienza. La riflessione di Kant è rivolta preliminarmente al campo della matematica e della fisica proponendosi, come si diceva, di fondare anche la matematica e la fisica come scienze.
Nelle proposizioni matematiche le categorie vengono applicate alle forme pure di spazio e tempo, stabilendo così dei rapporti formali. La matematica è una scienza intuitiva che si realizza al di fuori degli elementi empirici, ma trova la sua convalida nell’esperienza in quanto i rapporti spazio-temporali trovano attuazione sempre nell’esperienza e nell’esperienza possibile. I concetti matematici, di per sé, non sono conoscenza, ma producono conoscenza in quanto sempre applicabili a situazioni empiriche. Kant riprende l’esperienza empirica di Davide Hume come fonte di ogni cognizione, con la variante che egli, a differenza dell’empirista scozzese, concepisce tutte le cognizioni provate attraverso l’esperienza, ma non procedenti dall’esperienza. La ben nota proposizione <7+5 = 12> non è analitica perché non si può formulare se non ricorrendo all’intuizione corrispondente dei due numeri, per esempio, alle cinque dita di una mano. In questi giudizi si ritrova quindi la costante della sintesi, propria di ogni conoscenza o scienza, ma vi è anche la nota dell’oggettività perché quantità ed estensione sono categorie dell’intelletto. La matematica come scienza è pertanto fondata. Discorso analogo si può fare anche per la geometria.
Per la fisica bisogna distinguere tra fisica pura e fisica empirica. La prima è costituita da alcune proposizioni fondamentali che esprimono le condizioni necessarie ed indispensabili per ogni conoscenza possibile di fisica. Sono principi formali che non cadono sotto il tiro dell’obiezione di Hume perché non si fondano sull’esperienza.
Nella fisica empirica, invece, si attua la sintesi tra elementi empirici e categorie intellettuali. Il molteplice sensibile viene investito ed unificato dalle e per le categorie. Le leggi della fisica e della natura in genere sono di conseguenza determinazioni soggettive, sono i risultati dell’attività del soggetto. Il principio di casualità, in particolare, fondamentale nel campo della fisica, è un principio <a priori> del soggetto. Pertanto anche le esperienze future saranno sempre determinate dalle medesime funzioni <a priori>, saranno cioè sempre oggettive. Anche la fisica come scienza è fondata.
A questo punto è opportuno puntualizzare alcuni aspetti, già emersi, ed evidenziarne altri che possono integrare e chiarire ulteriormente la tematica in esame.
La conoscenza – e dal punto di vista kantiano anche la scienza – è sempre di natura sintetica: sintesi di materia e forma, di intuizioni e concetti. I sensi nell’atto conoscitivo forniscono le cose una accanto all’altra e una dopo l’altra. L’intelletto, assumendole, opera attivamente la congiunzione mediante le categorie. Occorre aggiungere che Kant tra la sensibilità e l’intelletto pone <l’immaginazione produttiva> come facoltà intermedia che opera direttamente la sintesi del molteplice sensibile. Nell’atto conoscitivo l’intelletto investe ed illumina la sintesi operata dalla <immaginazione>, elevandola a concetti.
Proviamo a chiarire meglio riassumendo il discorso in questi termini.
Il processo conoscitivo compiuto si articola e si realizza in tre momenti:
a) Il molteplice sensibile, che assicura l’aggancio con l’esperienza, viene prima, per così dire, penetrato nello spazio e nel tempo;
b) Viene poi raccolto dall’immaginazione produttiva;
c) Viene infine unificato dall’intelletto.
Questo schema triadico è enunciato da Kant nella seconda edizione della Critica.
Resta ancora da aggiungere che a fondamento di ogni conoscenza vi è “ “l’Io penso”, cioè l’autocoscienza o identità dell’io. “l’Io penso” è il fondamento della costituzione unitaria degli oggetti e dei rapporti che essi hanno tra di loro. Per poter conoscere tutte le sensazioni devono essre rapportate ad un’unica realtà che si percepisce come se stessa in tutte le modificazioni sensibili. Se non ci fosse questa riduzione all’unità dell’autocoscienza , avremo un fluire slegato di sensazioni. In questo senso “l’Io penso”, definito “Appercezione trascendentale” è condizione necessaria di ogni conoscenza.
Prima abbiamo accennato all’analogia della “Rivoluzione copernicana” in base alla quale, dicevamo, è la natura che si adegua al soggetto conoscente; adesso aggiungiamo: non tutta la natura, ma solo ciò che di essa viene conosciuto e come viene conosciuto. Noi non conosciamo il tavolo, ma alcune qualità sensibili che penetrate, raccolte e unificate vengono ridotte dall’intelletto all’unità concettuale del tavolo. Da qui la distinzione kantiana tra <noumeno> e <fenomeno>.
Il <noumeno> è ciò che può essere solo pensato come concetto senza la corrispondente intuizione sensibile. Lo scibile però è costituito dal materiale empirico che cade sotto il controllo della sensibilità e tutto questo è <fenomeno>. Nel paragrafo 36 dei Prolegomeni si legge che “la natura è resa possibile <materialiter spectata> dalla nostra sensibilità, <formaliter spectata> dal nostro intelletto”. In altri termini l’intelletto garantisce l’oggettività sotto l’aspetto formale. Le “categorie intellettuali” sono le condizioni necessarie del mondo naturale e dell’esperienza possibile.
Resta ora da esaminare il tipo di risposta che Kant dà al quesito centrale della Critica della ragion pura: è possibile la metafisica come scienza? Il filosofo affronta specificamente l’argomento nella Dialettica che costituisce l’ultima parte dell’opera.
Date le premesse poste nella prima parte (l’Analitica), la risposta non può che essere negativa: la metafisica come conoscenza della <cosa in sé> (noumeno) non è possibile. Il <fenomeno> soltanto può essere oggetto di conoscenza in quanto solo esso è “la cosa” nel suo rapporto col soggetto. Per definizione il <noumeno> è estraneo ad ogni rapporto conoscitivo perchè non è oggetto dell’intuizione sensibile. I principi <a priori> servono soltanto sulla terraferma dell’esperienza. Nell’ Analitica si trova questa metafora incisiva: L’intelletto può passeggiare sicuro entro il perimetro dell’isola dei fenomeni che rappresenta “il territorio della verità”.
Il vasto oceano che circonda quest’isola è buio e misterioso. Quando l’uomo, eterno Ulisse, spinto da un impulso irresistibile tenta di avventurarsi in quell’oceano, farà sempre ed inevitabilmente un “folle volo” e giammai potrà sottrarsi al fatale naufragio essendo egli privo dei mezzi per poterlo esplorare: il <noumeno> è un concetto limite: simboleggia la <cosa> che a noi non è dato conoscere.
Con altra metafora possiamo dire che l’uomo, nell’atto conoscitivo, si trova su di un ponte il quale da una parte è collegato con la terraferma dei <fenomeno> , dall’altra con il mistero della <cosa in sé>. Se si dirige da questa parte ben presto egli non scorge più nulla. Si può supporre che il ponte poggi anche da questo lato, ma non si scorge neppure la testata.
Siamo noi a dare forma al mondo. Ciò non significa che il pensiero crei il mondo. Kant non nega che il mondo abbia una sua realtà, dice, invece, che noi non possiamo conoscerlo nella sua interezza: conosciamo le cose attraverso i nostri schemi.
In definitiva la facoltà che organizza i concetti in totalità assolute e perfette è la ragione. Essa facendo appello all’idea del mondo, all’idea dell’anima e all’idea di Dio le compone nelle sistemazioni compiute della COSMOLOGIA, della PSICOLOGIA e della TEOLOGIA.
Per concludere un accenno all’etica kantiana, oggetto della CRITICA DELLA RAGION PRATICA. Per Kant agire moralmente significa trattare l’umanità propria e quella altrui sempre come fine a mai come mezzo. Servirsi dell’altro come strumento vuol dire asservire anche se stessi, spegnendo quella scintilla fulgente in cui irrompe la libertà.
La visione del mondo e dell’uomo di Emanuele Kant è racchiusa nella famosa conclusione dell’opera sopra citata: “Il cielo stellato sopra di me, la legge morale dentro di me”.