Una piazza per amico
“Può darsi che non io sappia dove vivo scegliendo te una piazza per amico…ma il mio mestiere è fare la guerriglia che sia in società o in famiglia”….. Scimmiottando una vecchia canzone del menestrello di Poggio Bustone si potrebbe forse descrivere lo stato d’animo che ha pervaso quel milione o poco meno, andati ancora una volta a Roma a manifestare la propria contrarietà al pensiero unico.
Dico ciò, da partecipante peraltro, perché ritengo che ci si possa sentire un po’ in tal modo, quando la presunta maggioranza silenziosa ti ammonisce costantemente che ragioni da residuato bellico, da soggetto preistorico e quando, per tale antichità di vedute, si viene messi alla berlina persino dal proprio Presidente del Consiglio, il quale è stato oltremodo veloce a passare dal rottamare una classe dirigente al rottamare un pensiero politico e sociale, denigrando chiunque, anche semplice cittadino o lavoratore o mente pensante, ritenga di avanzare dubbi sul concetto di modernità.
Ora che si debba fare la guerriglia per forza non lo prescrive il medico ed anzi se si possono evitare fuggi fuggi, lacrimogeni o peggio manganellate è cosa largamente condivisa da tutti i manifestanti del mondo, in qualsivoglia epoca. Specie se ciò non porta nemmeno, come nella maggior parte dei casi, al conseguimento di un obiettivo finale straordinario. Così come è condivisa l’idea che non sia un grande godimento vedersi privati di 1/22 del proprio stipendio, per quelli che ce l’hanno, allorquando si decide di aderire ad uno sciopero. In particolare, in tempi di recessione economica, quando seriamente molte buste paga non sono più sufficienti per giungere nemmeno al cosiddetto pareggio di bilancio, per non dire all’accumulo di qualche risparmio.
Nonostante quindi non si tratti di eventi ludici, di situazioni vissute a cuor leggero, manifestare, scioperare, ritenere che si debbano sperimentare nuove strade per redistribuire le ricchezze, immaginare che il potere politico sappia imporsi su quello economico, sia che si tratti di banchieri internazionali che di consigli di amministrazione delle multinazionali, sono tutte cose considerate superate, da retrogradi e ci si permette ormai anche di sbeffeggiarle istituzionalmente.
Quale migliore risposta però alle beffe e ai decreti legislativi “presunti” riformatori che tornare in piazza e invocare a gran voce lo sciopero generale? Ciò è quanto è successo a Roma lo scorso sabato 25 ottobre. Seppure fra mal di pancia, sfiducia, scollamento dai leader, gente da tutta Italia, in numero probabilmente superiore alle aspettative diffuse, si è sobbarcata viaggi estenuanti per poter convergere in Piazza San Giovanni in Laterano e per rappresentare la voce degli esclusi, di coloro che paiono residui del passato o personaggi di fantasia, di interi strati sociali di popolazione che fluttuano fra una artefatta estinzione ed una marginalità invece assolutamente concreta.
Ma anche la voce dei milioni di persone che semplicemente non si sono arricchiti e non si stanno arricchendo grazie prima alla speculazione finanziaria, poi all’esplosione della bolla recessiva ed infine alle politiche del rigore e dell’austerità, tutti fatti che hanno contribuito alla divaricazione della forbice fra le ricchezze del 10% di abitanti della terra e quelle del restante 90%.
Poi di fronte ad una folla così consistente qualcuno ha provato a buttarla in caciara ironizzando sulle modalità di organizzazione dell’evento, sulla “deportazione” dei pensionati (peraltro la piazza era gremita di giovani e molto più variopinta del solito), sulle “vacanze romane”, come non sapessero questi meschini figuranti che i lavoratori “sono” il sindacato, rimpinguandone le casse con le trattenute mensili in busta paga. Questa vituperata organizzazione complessa è sì fatta anche di mestieranti e scaldapoltrone ma è soprattutto fatta di lavoratori e sarebbe un bene che questi se ne appropriassero di più per renderlo maggiormente adeguato ai loro bisogni…ma questo è un altro discorso che non possiamo affrontare qui oggi.
Nel vuoto totale di rappresentanza partitica e nel bombardamento mediatico che martella sulla fine delle tutele e dello stato sociale, che vi siano soggetti che mobilitano ancora milioni di persone non può che fare del bene a quel residuo di parvenza democratica con cui conviviamo. E mi auguro proprio che gli episodi di repressione agli operai delle acciaierie ternane siano stati la conseguenza di una leggerezza gestionale dell’ordine pubblico e che non si riconducano invece ad un più ampio disegno di soffocamento delle rimostranze di piazza, su cui così bene si è già sperimentato dal 2000 in poi su altri manifestanti e su altro genere di cortei. Perché non è che picchiare gli occupanti delle case sfitte, per dire, anziché i lavoratori in cassa integrazione, sia diverso. Sono tutti atti che servono alla “pacificazione” e vanno letti con attenzione per essere respinti convintamente anche dalla popolazione sonnecchiante e anche da coloro che si ritengono così evoluti da non aver più bisogno delle categorie sociali e delle rappresentazioni del secolo scorso.
Non bastano uno smartphone o la capacità di navigare velocemente in rete per salvarci dalla repressione del dissenso, anche perché durante le cariche non c’è campo per navigare ma solo, quando si è fortunati, per correre. Così come non basta essere bravi e scrupolosi nel lavoro per salvarci dal licenziamento o per ritrovare un nuovo posto non più fisso, come da ricette renziane.
Il milione che era in piazza a Roma lo sa, l’ha capito da tempo e ha provato ancora una volta a chiedere a gran voce che qualcuno in alto si svegli e torni a guidarlo verso un’idea di stato egualitario, dove paghi chi ha o chi non ha mai pagato, dove le politiche mondiali non vengano decise da un’aristocrazia politica ed economico-finanziaria, dove quella propensione ad immaginarci una crescita globale delle condizioni di vita, senza le fregole del superfluo cui ci hanno sciaguratamente indotto, forse proprio per fare deflagrare tutto, non venga uccisa per sempre, facendoci ripiombare in un triste medioevo.
A proposito di secoli passati e per venire alla consueta pagina meteorologica, vorrei segnalarvi un dato pescato nella sconfinata marea reperibile in rete: il 15 ottobre del 1887 Parma venne sommersa da una imponente, per il periodo, nevicata che accumulò ben 10 cm in città e quasi mezzo metro nella prima collina. Fa un certo effetto paragonare tale evento all’ottobre appena terminato che ha invece visto quasi tutta la penisola fare i conti con un caldo di fine estate, con le spiagge ancora affollate nei weekend e in alcune aree del paese con temperature ampiamente sopra i 30°.
Purtroppo i genovesi lo ricorderanno anche per la furia temporalesca che ne ha devastato parte della città per l’ennesima volta ma delle cause e soprattutto delle concause di tali accadimenti ne abbiamo parlato a più riprese. Rimanendo allo specifico climatico, si rammenta solo quale sia lo schema classico che rende esplosiva la situazione in quell’area del Golfo ligure: venti tesi da sud, sud-ovest, perturbazione che arriva dalla Francia, effetto barriera creato dalle montagne a nord e blocco anticiclonico nel resto del territorio italiano, ad est della regione.
Posto tale schema, che poi gli eventi siano sempre eccezionali è altro discorso, così come superflue ritengo le polemiche sull’incapacità predittiva dell’ultima alluvione. Questa è stata frutto di una situazione perturbata che, specie nella sua prima fase, si è sviluppata con caratteristiche tipicamente estive: ossia in una ristretta porzione di territorio si sono sviluppati temporali autorigeneranti, circoscritti ma che hanno insistito solo sul Genovesato orientale, tant’è che aree limitrofe come il Savonese o l’Astigiano non hanno avuto che qualche goccia. Francamente difficile da prevedere.
Si possono certo prevedere, nel breve termine, i fenomeni temporaleschi ma l’intensità e la concentrazione in un’area così ristretta è quasi fantascienza. Quante volte in estate appunto l’intensità della pioggia varia da quartiere a quartiere della medesima città? In un quadro più autunnale o comunque più strutturato dal punto di vista dell’instabilità sarebbe stato un po’ diverso, perché questi rovesci violenti si sarebbero iscritti in un complessivo maltempo “regionale”, in una perturbazione con un fronte più esteso. In tal caso sì che non allertare le zone più a rischio come può essere appunto Genova sarebbe stato delittuoso.
E qui veniamo alla previsione per i prossimi giorni. Dopo una ricorrenza dei morti all’insegna del bel tempo generalizzato, con i residui perturbati che abbandoneranno anche le estreme regioni joniche, da lunedì 3, e specie fra il 4 e il 6 novembre, il pericoloso schema suddetto si riproporrà. Il blocco orientale in tal caso sarà costituito dall’anticiclone russo, stazionante sui Balcani e non da quello nordafricano e dunque potrebbe essere persino più arduo “sfondarlo” da ovest per l’affondo perturbato atlantico. Questo significherebbe far rimanere ferma sui bacini tirrenici l’area di basse pressioni per più giorni e, specie appunto per Liguria, coste tirreniche e area prealpina, ossia i versanti esposti alle correnti meridionali, significherebbe grandi piogge seppure in un contesto più autunnale e dunque meno dirompente. I bacini marini sono però, seppure raffreddatisi rispetto all’evento di ottobre, ancor piuttosto ricchi di calore e quindi è bene segnalare le potenzialità di grave pericolo e allertare la Protezione Civile.
Molto dipende come sempre dall’asse dell’affondo ciclonico. Se questo si attesterà sui confini italo-francesi, Genova e la riviera di Levante di nuovo in prima linea nella sofferenza, con richiamo di aria calda sulle regioni adriatiche che farà risalire abbondantemente le temperature, specie quelle notturne. Se sarà spostato più ad est o se riuscirà a muoversi abbastanza velocemente, le piogge colpiranno praticamente l’intera penisola ma forse, così facendo, saranno meno devastanti. Anche se le coste toscane, laziali e campane devono tenere alta la guardia, perché il fronte nel lento spostamento verso est pare scivolare a sud e invorticarsi all’altezza della Sardegna e del basso Tirreno. Dal fine settimana successivo la situazione complessivamente sembra poter migliorare, sebbene permanga una certa instabilità ancora nella citata area sudoccidentale. Senza alcun dubbio scampoli di un autunno gradevole si avranno invece ancora nelle Marche, in Abruzzo, e nelle regioni joniche che sono quelle meno esposte a questo tipo di circolazione e più protette dall’anticiclone orientale, anche se in un secondo momento l’ingresso da scirocco penalizzerebbe anch’esse. Nel limbo le regioni della pianura padana centro-orientale e la Sicilia occidentale.
Nelle piazze romane un po’ di sole c’è sempre tutto l’anno e, alla faccia del pensiero unico, chi voglia andare a dissentire non avrà da temere i fenomeni climatici. Altri tipi di rischio sono ormai poco prevedibili.