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Scritto da nel Numero 113 - 1 Ottobre 2014, Politica | 0 commenti

La legge Delrio, una riforma all’italiana

La legge Delrio, una riforma all’italiana

Con le elezioni provinciali a suffragio ristretto, ovvero riservate solamente agli amministratori municipali del territorio (con un sistema di voto ponderato), è iniziata una nuova era per le province italiane. La legge n°56 del 7 aprile 2014 ha infatti decretato la trasformazione delle province in enti territoriali di aria vasta designando al contempo la nascita delle città metropolitane (Torino, Milano, Venezia, Genova, Bologna, Firenze, Bari, Napoli e Reggio Calabria, più Roma Capitale).

 

In attesa di una corposa riforma costituzionale che modifichi seriamente l’intero ordinamento italiano, ecco dunque che trova pratica attuazione la legge Delrio, che ridimensiona il ruolo delle province e, dal 1° gennaio 2015, farà entrare in funzione le città metropolitane. Tutti enti che saranno guidati da organismi politici non retribuiti.

 

Lungi dall’essere la bandiera di una nuova era per il sistema politico italiano, la particolare campagna elettorale per le ristrette elezioni provinciali non può che essere sviluppata internamente al mondo partitico, essendone a grande richiesta esclusi tutti i cittadini. Così in diverse realtà ha prodotto accordi bislacchi, anche figli dell’esempio governativo delle larghe intese, con l’apice toccato dalla provincia di Vibo Valentia (peraltro in stato comatoso avendo dichiarato lo scorso anno dissesto finanziario) dove ha già vinto Andrea Niglia, sindaco della piccola comunità di Briatico e capolista di un cartellone elettorale figlio del patto del Lordazzo (emblematica la nomenclatura) composto da Forza Italia, Fratelli d’Italia, pezzi del Nuovo Centro Destra (vicini all’ex presidente della regione Scopelliti) e renziani del Partito democratico (mentre il Pd dell’ex area Cuperlo ha presentato un’altra lista).

 

Dopo l’ondata popolare anti-politica, le province sono finite nel mirino del legislatore. Prima con Monti, ora con Renzi. Ma per tagliarne i costi in maniera significativa, il taglio del personale politico non ha grossa importanza. E la politica del territorio ne esce ancora più confusa, stranita, ingolfata. I comuni sempre più in difficoltà economica dovranno sobbarcarsi, insieme alle regioni, le competenze provinciali.

 

Chi scrive ha già fantasticato in tempi non sospetti (Arengo n°83 del 1° ottobre 2011 – http://www.larengodelviaggiatore.info/2011/10/quali-ragioni-per-quali-regioni/ ) su una soluzione di trasformazione dell’assetto istituzionale del Paese. Ovvero cancellare le regioni riducendole a mero riferimento geografico e trasferire le competenze alle province. Nel frattempo le indagini della magistratura stanno confermando come le regioni stesse rappresentino un autentico buco nero di risorse pubbliche ad ogni latitudine nazionale.

 

L’Italia ha bisogno di un governo vicino al territorio. Necessita di enti vicini in maniera sussidiaria alla popolazione, con governanti più che mai identificabili (e, quindi, responsabilizzati al massimo in quanto il loro operato dovrebbe essere immediatamente verificabile e giudicabile; in scienza politica accountability) che si occupino di sanità, strade, rifiuti e servizi che inducano i cittadini a quella rivoluzione civile indispensabile a superare la crisi economica, politica, sociale e culturale che il Paese sta vivendo.

 

Un’operazione di questo tipo, se applicata pedissequamente a tutto il territorio italiano senza eccezioni,  abolendo insomma lo statuto speciale per regioni e province, svolgerebbe un’azione di compattamento nazionale. Non più regioni che dividono, ma governi delle province che si rapportano sia fra di loro sia direttamente con lo Stato centrale.

 

Ma la non riforma delle province in atto, che entreranno ora in un limbo in attesa delle grandi manovre istituzionali, non è l’unico aspetto discutibile di questo ennesimo pasticcio legislativo. La legge Delrio ha prodotto quasi 22 mila consiglieri comunali e oltre 4 mila assessori in più, rispetto agli improvvisati ma azzeccati tagli che erano stati effettuati con la manovra-bis dell’agosto 2011. Così i comuni fino a 3000 abitanti hanno ben 10 consiglieri (si era riusciti a ridurli a 6) con 2 assessori, mentre i comuni che annoverano fra i 3 mila e i 10 mila abitanti hanno 12 consiglieri con 4 assessori. Un maggior numero di consiglieri, specie nei paesi con meno di 3 mila abitanti (e a maggior ragione in quelli sotto i mille), non garantisce affatto una «maggiore» democrazia, bensì una selezione meno accurata degli amministratori. E, ancora una volta, minore accountability. Un Consiglio comunale composto da 6 membri più la segretaria comunale basta ed avanza per governare una piccola comunità.

 

Ecco perché molti analisti considerano la legge Delrio una riforma all’italiana. Poiché, di fatto, produce un cambiamento non sostanziale ma alla stregua di fumo negli occhi. Anzi, contenendo in sé elementi che vanno esattamente nella direzione opposta a quella paventata dall’esecutivo nazionale, che avrebbe come fari la semplificazione e l’efficienza (ad un minor costo) delle istituzioni politiche ed amministrative.

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