Noi e gli altri
Nel mondo occidentale prevale, sul piano culturale e relazionale, il modello assertivo che porta ad affermare il proprio <sé> in ogni situazione.
E’ un approccio che comporta una difficoltà ad immaginare un mondo di valori non centrato sull’affermazione dell’individuo. Questa convinzione ha le sue radici nell’etnocentrismo: pensare che il proprio orizzonte culturale sia l’unico di cui vale la pena interessarsi perché superiore a tutti gli altri. E’ un modello che, purtroppo, è stato nel tempo esportato o copiato in altri contesti socio-culturali.
Questo atteggiamento determina, di conseguenza, una stratificazione della dicotomia <noi – altri> e quindi di due mondi diversi e in gran parte incompatibili.
Il principale sostenitore di questa tesi è Claude Lévi-Strauss, considerato un mostro sacro dell’antropologia europea. Lo studioso francese in occasione dell’assemblea internazionale dell’UNESCO (Parigi, 21 gennaio 1971) con una metafora, tanto suggestiva nella forma quanto inquietante nella sostanza, ha proposto questo enunciato: “Le culture sono come i treni che corrono ciascuno nelle proprie rotaie, alla propria velocità, verso le proprie direzioni, … ma se su un binario parallelo passa un treno che va in un’altra direzione, noi percepiamo un’immagine vaga , fugace, quasi uno sfarfallio momentaneo nel nostro campo visivo… qualcosa che serve solo ad irritarci perché interrompe la nostra placida contemplazione del paesaggio”.
Secondo questa teoria, ogni membro di una cultura è legato ad essa come il viaggiatore lo è al treno su cui viaggia. <Gli altri> restano fuori dal nostro mondo, anzi ci irritano perché non hanno niente da insegnarci. Noi ce ne stiamo, per conto nostro, sul treno confortevole che va per la sua strada mentre sulle strade vicine e parallele succedono cose che non ci riguardano.
Semplificando questo modello di pensiero, si può dire che gli italiani, i francesi, o altri popoli di un medesimo contesto culturale, possono capire se stessi e il proprio mondo, ma non quello dei <non appartenenti>.
Ma il nostro treno non attraversa anche le contrade degli <altri> e le loro storie ?
Purtroppo, nell’ambito di questa visione riduttiva e parziale trova humus favorevole la contrapposizione sistematica tra <noi> e <gi altri>, tra occidente e <resto del mondo>, tra ariani e semiti che nel secolo scorso ha prodotto atroci e nefaste conseguenze e che, in forme diverse perdurano, purtroppo, ancora oggi in varie parti del mondo.
E’ pur vero che la distanza tra <noi> e <gli altri> non sempre si coglie nella quotidianità delle relazioni tra persone, mentre cresce sovente e si alimenta nel territorio del potere e delle ideologie . Qui soprattutto <gli appartenenti > e <i non appartenenti> diventano categorie separate . Qui la soluzione dei problemi che si pongono in una società multiculturale e globalizzata viene identificata nell’esclusione dei < non appartenenti>.
Agli <altri> viene negato il diritto di cittadinanza nel mondo del <noi> perché questa condizione viene declinata in relazione a tradizioni e vicissitudini diverse che le persone hanno vissuto. E questa diversità viene invocata per negare o limitare il diritto di cittadinanza, prerogativa che ha fondamento naturale.
L’esclusione inizialmente viene pensata in termini spaziali ma poi, come mostrano la storia e la cronaca, essa spesso sfocia nell’annientamento fisico dei gruppi considerati diversi e nemici.
Al di là di ogni altra considerazione, la metafora del treno accredita una concezione autistica della cultura che appare decisamente datata anche in relazione ai molteplici mutamenti geopolitici e socio-culturali.
La ricerca antropologica più recente, infatti, insegna che, in un mondo globalizzato e segnato da crescenti reti di interconnessione, “le differenze le incontri nel tuo quartiere e ciò che è familiare lo trovi all’altro capo del mondo” (Clifford, 1988). Oggi sperimentiamo situazioni in cui le differenze emergono in modo sempre più sfumato e i confini tra le varie culture sono diventati piuttosto permeabili. I processi culturali si verificano nelle zone di contatto costituite da organizzazioni che includono soggetti di differenti estrazioni etniche e culturali.
La contrapposizione si può e si deve superare sviluppando la capacità di saper vedere le differenze, di coglierle senza cristallizzarle in stereotipi come: “L’uomo nero”, “la donna araba”, “la badante rumena” e così via. Si supera soprattutto scrollandosi di dosso la bardatura etnocentrica costruita nel corso della propria formazione a volte anche nella famiglia e nella scuola.
La diversità non può essere utilizzata strumentalmente per negare o limitare il diritto di cittadinanza che deve essere costruito su base plurale e interculturale.
L’affermazione della propria identità culturale e/o religiosa si raggiunge percorrendo la strada, a volte aspra e comunque necessaria, della “unità nella differenza”.
Solo se l’idea di cittadinanza si apre a nuove prospettive, meno etnocentriche e più multivocali, si riconoscerà anche agli <altri> il diritto di cittadinanza nel nostro mondo.
E’ un impegno di civiltà, è una scelta di democrazia. Questa è autentica solo e se le differenze – di colore, di fedi, di metodi, di genere – riescono a coesistere e convivere pacificamente.