A casa por un rato
Una delle regole principali per sopravvivere ai bus Paraguaiani è applicare la medesima filosofia o viaggiare con El Rapido Guaranì. Salire di nuovo su un bus che realmente è semi-cama ed è provvisto di aria condizionata e toilet, per raggiungere Ciutad de l’Este da Asunction mi ha quasi fatto piangere. Soprattutto ricordando le 25 ore tra Santa Cruz e la capitale del Paraguay, con virus intestinale e nient’altro che forza di volontà per trattenerlo (ora, dopo quattro giorni di pasticchine e riso in bianco posso dirmi finalmente ristabilita, MAMMA TRANQUILLA!!!!) e devo ammettere che sento molta, quasi troppa affinità con la povera Charlot (e spero che questa la capiscano solo le ragazze).
La lavanderia diventa dunque indispensabile per me che ora viaggio con un bagaglio ridotto all’osso e per chiunque altro desideri non essere incollato di sudiciume, che farà anche tanto vissuto, ma pure un poco schifo.
Abbandonata Sucre, cittadina tra le colline Boliviane con un meraviglioso quartiere di mercato, dove tutti si rifiutavano di cambiare i 100 dollari, poi rivelatesi falsi, di Alex, procurandogli una delle più brutte mattinate della sua vita, e con una parete coperta di impronte di dinosauri che una sovraeccitata guida locale ci spiega tentando di prolungare al massimo una visita che altrimenti non sarebbe durata più di dieci minuti, ci avviciniamo al confine.
E a Santa Cruz una delle cose che maggiormente si nota è come cambino i tratti somatici della gente. Non più bassotti e scuri, ecco stagliarsi (no Lara, non in senso “Harmony”) nuovamente uomini sopra al metro e settanta e ragazze flessuose dalla carnagione più chiara. Si nota già l’influenza del vicino Paraguay.
La città è però solo l’ennesima copia di un grande centro abitato, vagamente europeo e non merita più dei due giorni necessari per riposarci e ripartire.
Alla dogana nel lato Paraguaiano si sente subito che la cordialità dei vicini non aveva il visto per entrare e spocchiosi omaracci ci schierano in fila di fronte ai nostri bagagli per il più ridicolo controllo anti droga mai visto, con il cane che a tutto prestava attenzione, tranne che a noi e alle valigie e il fratello povero di Mastro Lindo che palpeggiava gli zaini costringendoci a svuotarli e a posare il loro contenuto sul terreno polveroso per l’anima del beneamato… ahem…paese.
Un po’ come se fossero tutti dopati di fiction statunitensi e poliziotti cattivi.
La terra di Miguel è una verde distesa di disordinati palmeti semi sommersi e nulla. E mentre percorrevamo i chilometri necessari a raggiungere Asunction, scattavo innumerevoli fotografie mentali e mi rendevo conto che nessuna o quasi di esse era sprovvista di una vacca. Perché qui ci si può dimenticare dei cani di strada. Qui, appena ci si discosta un pochino dal “centro centro”, si hanno mucche, buoi e tori di strada, che placidamente fungono da tosaerba per gli incolti sobborghi di baracche che circondano i ricchi quartieri centrali. Perché il gap tra classi sociali è immenso.
Si passa da auto di lusso, cellulari e vestiti all’ultima moda a bambini in cenci che hanno da inventarsi una sopravvivenza.
Sono sicura esista anche una “classe media”, ma il contrasto con quella bassa è tale che si può accorpare ai livelli elevati senza sbagliare di molto.
Per quel che mi riguarda, per la prima volta nella mia vita, ho prelevato la cifra di 1.500.000 dallo sportello bancomat. Erano Guaranì, ma posso dire mi abbia fatto impressione.
Confessare di avere come unico desiderio di visita un bagno e il mio letto, mi farà apparire più una turista pigra che una viaggiatrice navigata, ma non saprei come altro giustificare il non aver visto assolutamente nulla di Asunction, se non la piazza principale, il ristorante all’angolo che serviva il miglior puré mai assaggiato da tempo e il terminale dei bus.
Però ho notato una differenza nella cultura del mate. Qui si usano tozzi e massicci thermos, imbragati in pratici portatutto nel quale trova spazio anche il bicchiere, mentre in Argentina ed in Uruguay hanno sviluppato le super dita prensili che riescono ad abbracciare le affusolate borracce e i mate con un unica mano.
Ma tornando a me, riversa sulla branda e mai così consapevole del detto “shit happens”, ecco che piove sul bagnato: Alex mi comunica che ha un amico che lo aspetta a Foz de Iguazù, lato brasiliano. E che con una settimana di anticipo sulla tabella di marcia, se ne va per raggiungerlo. Il giorno stesso.
Troppo esausta per essere ragionevole e troppo impulsiva per non essere io, lo saluto in malo modo e di conseguenza passo una delle giornate più dure da che sono in viaggio. Ma quel che non ammazza fortifica e il giorno dopo sono di nuovo in carreggiata.
E così BAM, eccomi di nuovo a casa in Argentina e il sollievo è tale che quasi non vorrei ritornare verso il Perù. Vorrei accoccolarmi qui e invecchiare tranquilla.
Ma l’universo ha modi molto sottili per comunicare con me e appena metto piede sul colectivo per le cascate, mi imbatto in Doroty e Ivan, cinquantenni y pico di Lima. Lei è un vulcano e mi si attacca al braccio per non lasciarlo che 8 ore dopo, al termine della visita al parco. Mi racconta di come il suo paese sia ricco di meraviglie e di cibi deliziosi, di quanto al gente sia amabile e tutto a poco prezzo. Di come l’isola di Pasqua sia un sogno e di quante cose splendide possa offrire. E i piedi mi prudono di nuovo dalla voglia di partire.
Ma da che sono bambina ed appassionata di letteratura russa/inglese e da che mi inferocivo di fronte a relazioni di amore/fratellanza/amicizia finite male solo per stupidi fraintendimenti, bisticci o non detti, mi sono fatta una promessa: non lasciare che questo succeda mai nella mia vita.
E così eccomi ancora a Puerto Iguazù, a scrivervi, mentre un gatto si struscia sulla tastiera, fusando come un trattorino ed impastando le lenzuola, e ad aspettare che Alex arrivi per celebrare come si deve la fine di un sodalizio ricco di affetto e complicità. Perché un errore non è più tale se vi si può porre rimedio e perché, dopotutto, domani è un’altro giorno.