Breve analisi del panorama politico alla vigilia delle elezioni
Le due candidature di centro-destra: Mario Monti e Silvio Berlusconi
La Repubblica Italiana vive oggi una situazione che assomma una serie di paradossi politici. Così cominciava un articolo apparso un anno fa sul numero 85 dell’Arengo, in cui esprimevo i miei dubbi e le mie aspettative all’alba di una nuova azione di governo portata dalla squadra appena entrata a Palazzo Chigi agli ordini di Mario Monti. Un uomo super partes, dicevano. L’uomo che avrebbe salvato il Paese. Non sono fra quelli che pensano che l’abbia distrutto; so che non tanto grazie alla sua sobrietà, quanto per la sua apprezzata personalità in campo economico e finanziario, l’Italia ha riguadagnato l’attenzione dei partner stranieri persa con la gestione emulobaccanale dei rapporti con l’estero che aveva Silvio Berlusconi. Ma si badi bene, i partner stranieri sono ancora quelli economici e finanziari, a cominciare dalle banche e dai grandi gruppi aziendali; e i miliardi ricavati dai provvedimenti presi sono andati a loro, e questo è stato fatto calpestando le schiene dei lavoratori italiani insieme ai loro portafogli, talvolta alle loro attività.
Mario Monti ha potuto mettere in atto, in sostanza, le politiche ultraliberiste che i più subdoli manager non erano riusciti a far approvare in nessuna legislatura, consentendo i licenziamenti senza giusta causa, innalzando i requisiti per il pensionamento e reintroducendo l’imposta sugli immobili, che per la cronaca era stata introdotta nel 1992 dall’altro governo “tecnico” di Giuliano Amato (nominato da Monti nel 2012 consulente per la disciplina dei partiti!), ridotta nel 2007 dal Prodi II e abolita nel 2008 dal Berlusconi IV. Oltre a un cattivo giudizio sull’operato romano di Mario Monti, inoltre, c’è il fatto che il senatore della Repubblica, ex commissario europeo per il mercato interno e per la concorrenza, figura di grande rispetto e sopra ogni parte, si candida alle elezioni del 24 febbraio con l’UDC di Pierferdinando Casini e con il FLI di Gianfranco Fini, ovvero con due personaggi che per lunghi anni hanno sostenuto il declino berlusconiano del paese salvo chiamarsene fuori quando la barca sembrava inclinarsi; è d’uopo ricordare che uno è cattolicissimo ma plurisposato (oggi con Azzurra Caltagirone, boss delle grandi costruzioni) e l’altro è il pupillo di Giorgio Almirante, ex segretario del Fronte della Gioventù e dell’MSI, autore con Umberto Bossi di una legge canaglia sull’immigrazione e con Carlo Giovanardi di una legge ignorante sulle droghe, che dopo aver inneggiato al fascismo fino alla cosiddetta svolta di Fiuggi (cioè fino ai 43 anni di vita, non da ragazzino) oggi grida all’orrore della shoah e troneggia dallo scranno di Montecitorio pontificando pace e giustizia sociale.
A destra della proposta di Monti, cioè dell’Italia borghese e benpensante, si schiera l’identica proposta del Popolo delle Libertà del Cavaliere, con i vari partitini (La Destra, Grande Sud, Fratelli d’Italia, Pensionati) che gli si attaccano alla cravatta nella speranza di accaparrare, se non qualche seggio in Parlamento, qualche favore nel proprio territorio. La collocazione più a destra forse non trova d’accordo gli attori stessi, dato che si tratta di idee assai simili: ma quelli che Silvio Berlusconi chiama moderati sono se non altro più sguaiati e meno supportati da personalità riconoscibili come di spessore. È un centrodestra populista e televisivo, che si raggrinza intorno alla fiera mai doma, ma che difficilmente potrà esercitare ancora un fascino politico sufficiente per portarlo all’esecutivo. E che cerca ancora voti fra i lavoratori settentrionali facendo leva sulle fascinazioni separatiste della Lega Nord, con cui le spartizioni dei ruoli sono state da Risiko: a te la regione, a me il Parlamento. Bisogna vedere quanti voteranno per Maroni in Lombardia, e quanti ancora una volta per Berlusconi; dopo vent’anni di promesse e con un PDL ai minimi termini – e con Milano già passata al centro-sinistra – la scommessa è sul peso elettorale che la Lega potrebbe ancora esercitare.
Le due candidature di centro-sinistra: Pier Luigi Bersani e Antonio Ingroia
Si dice invece assai diverso il programma della coalizione Italia Bene Comune, che propone Pierluigi Bersani come prossimo presidente del Consiglio innalzandolo a messia della politica e gratificando i suoi elettori con la garanzia di essere “l’Italia giusta”. Al di fuori di questa tracotante presunzione di superiorità civile, è vero che a parole il Partito Democratico fa voce di alcune riforme che da un lato tutelino i diritti delle persone e dei lavoratori e che dall’altro non contrastino un’evoluzione politico-economica che ormai vede il liberalismo come avviato percorso verso l’agiatezza dei più.
La tranquillità del dialogo al centro è affidata alla presenza nella coalizione di Bruno Tabacci; ma di quest’uomo pacato e di buona educazione, oggi in giunta comunale a Milano con Giuliano Pisapia, è bene non dimenticare il passato nei consigli d’amministrazione di Eni, Snam ed Efibanca, la presidenza della società che gestisce l’A15 e soprattutto la militanza nelle file della Casa delle Libertà dal 2001 al 2008.
La garanzia delle attenzioni nei confronti dei più deboli e dei più bistrattati dovrebbe essere data da Sinistra Ecologia Libertà: Nichi Vendola è un compagno di moralismo d’altri tempi, che potrebbe inserire (nell’agenda parlamentare, più che in quella di governo) disegni di legge di tutela dei diritti fondamentali. La sua esperienza d’amministratore in Puglia è assai apprezzata dagli abitanti di quella regione; ma sarà dura sperare che gli elettori di sinistra diano fiducia a un partito che coraggiosamente si lega a un progetto di governo e altrettanto supinamente s’azzerbina a un annuncio di probabile accordo con la destra montiana per consentire la tenuta del governo stesso.
Per quanto riguarda il segretario del PD e candidato premier, Pierluigi Bersani è un bravo padre di famiglia, è certamente un uomo retto e onesto, ha una specchiata storia personale e un valido excursus politico alle spalle (deputato europeo e nazionale, presidente di regione, tre volte ministro). Tuttavia, l’attuale proposta del suo partito si discosta da quel che de facto ha lasciato che accadesse sostenendo il governo Monti in ognuno dei voti di fiducia con i quali sono state approvate sentenze di massacro sociale. È bene che oggi il PD voglia voltare pagina, ma perché allora votare l’Agenda Monti? Il dubbio viene: e se non è senso dello Stato può essere solo manifesta incapacità o profumo di opportunità politica. Ciò senza entrare – per ragioni di numero di battute – nelle vicende bancarie a tutti note con lo scandalo del Monte dei Paschi di Siena.
È di centro-sinistra (e non antagonista come certa stampa vicina al PD e al PDL vorrebbe far credere) anche la candidatura di Antonio Ingroia: la presenza di un movimento con forti caratterizzazioni moraliste e giustizialiste come l’Italia dei Valori certamente non può non sbilanciare verso destra una lista dove pure appaiono i Verdi e i due partiti della sinistra, Rifondazione e i Comunisti Italiani. Questi ultimi appoggiano lo stesso candidato dopo la frattura della Federazione della Sinistra, precedente alla candidatura di Ingroia: i Comunisti Italiani valutavano un appoggio al centro-sinistra bersaniano venuto meno solo con la scelta di formare il cosiddetto quarto polo in cui figurano per l’appunto anche Di Pietro e gli Arancioni di Luigi De Magistris. Una lista piena di avvocati ed ex magistrati, insomma; e senza dover scomodare Montesquieu, appare triste per la tradizione socialista e comunista italiana dover sperare di rosicchiare qualche parlamentare solo grazie alla presenza di personaggi noti al pubblico per le loro eccellenti carriere antecedenti ad oggi. Il programma di Rivoluzione Civile incontra certamente le aspettative di certa parte della società italiana (come pure le idee programmatiche che Sinistra Ecologia Libertà intende portare a Montecitorio, per verità) ma appare come un pot-pourri di istanze diverse in cui si punta più allo spessore dell’immagine di Ingroia che non alla sostanza del progetto politico. Ne sia dimostrazione il fatto che nel simbolo il cognome del candidato non solo è molto più grande del nome della lista – e bene ha fatto Bersani a non volere il suo nel logo del PD – ma addirittura sovrasta per dimensioni la stilizzazione del Quarto Stato di Giuseppe Pellizza da Volpedo: ancora una volta il cammino dei lavoratori è ostacolato dai personalismi.
Le altre candidature
Per chi si slega da queste quattro realtà di voto, le possibilità di essere eletti rappresentanti del popolo italiano sono davvero poche. La ragione della storia non vuole nemmeno prendere in considerazione un buon esito delle candidature neofasciste di Luca Romagnoli per l’MSI, Roberto Fiore per Forza Nuova e Simone di Stefano per CasaPound: si tratta di personaggi che portano avanti idee e proposte fuori legge o al limite dell’incostituzionalità, ma le loro stesse divisioni garantiscono una quasi certa esclusione dal Parlamento.
Dall’altra parte, non sono molte le possibilità per Marco Rizzo del Partito Comunista e per Marco Ferrando, sostenuto da un Partito Comunista dei Lavoratori che potrebbe tuttavia beneficiare dei voti di alcuni delusi dalle candidature di Bersani e Ingroia e puntare a ricevere un cospicuo numero di preferenze, utile magari per farsi sentire alle prossime elezioni amministrative.
Un risultato soddisfacente (ma parliamo sempre dei famosi “zero virgola”) potrebbero averlo i Radicali di Mario Staderini, che anche quest’anno cambiano nome in lista (Amnistia, Giustizia e Libertà) e che propongono le loro storiche battaglie di diritto: sono numerosi gli italiani che ne abbraccerebbero almeno qualcuna se fosse abbandonato il mantello di boria con cui si mascherano da paladini della rettitudine.
Tralasciando le altre candidature, spesso solo di colore, ed essendo questa di un’analisi del panorama politico, si potrebbe anche non parlare del MoVimento 5 Stelle (a cui certamente servirebbe un editor per il nome). I giovani webnauti che confidano negli sputi di Beppe Grillo sono mossi certamente dall’amor patrio, ma leggendo il non-statuto (si chiama proprio così) e poi il programma, che inizia con tre “non” nelle prime tre righe, si evince che si tratta di un insieme di proposte subordinate all’esistenza di un mondo ideale in cui basta strofinare una lampada per fare uscire un genio e chiedergli di realizzare almeno tre desideri. E una riflessione mi viene proprio spontanea: alle elezioni del 2008 il PDL – notoriamente capace di intercettare i voti dei menefreghisti della politica e degli illusi del miracolo berlusconiano – prese il 37,4%. Oggi i sondaggi lo danno intorno al 20%. Il MoVimento 5 Stelle, fondato da Grillo nel 2009, oscilla invece fra il 14 e il 17%. Defendit numerus, diceva Giovenale.