Palingenesi della politica
“Qui il nostro governo favorisce i molti invece dei pochi: e per questo viene chiamato democrazia. Qui ad Atene noi facciamo così”.
Questo è l’inizio del famoso discorso fatto da Pericle agli Ateniesi nel 461 a. C. e riportato da Tucidide nel 2° libro della Guerra del Peloponneso.
Al tempo di Pericle ad Atene non c’erano i partiti, ma c’era la democrazia, che significa governo di popolo. Oggi in Grecia ci sono i partiti !…
Anche in Italia oggi ci sono i partiti. Ma quanti partiti ! E tutti attraversano una grave crisi d’identità, tutti inchiodati alla ricerca del consenso invece di essere orientati al bene comune. I partiti non sono più movimenti di opinione e luoghi di formazione della rappresentanza popolare, sono diventati pesanti apparati che alimentano svariate branche di voraci nomenclature. Al loro interno la corruzione dilaga.
Il mondo si è globalizzato e si sta rimescolando per effetto di continue trasformazioni geopolitiche; la scienza e la tecnica hanno aperto nuovi orizzonti e più avanzati dinamismi. Invece il sistema dei partiti, che trascina anche il nostro assetto istituzionale, si è sclerotizzato. Il ricambio si è bloccato, la democrazia è malata.
In questo scenario desolato, si è determinato un generale disimpegno politico e sociale con la prevalenza di atteggiamenti individualistici che spesso si intrecciano con un vieto populismo. Tutto ciò ha fatto regredire i comportamenti sociali verso una forma di isteria in cui l’apparire e l’avere hanno più rilevanza rispetto all’essere.
Cosa fare ?
Per tentare di uscire da questa situazione bisogna anzitutto ricercare le cause che l’hanno determinata. E a ben guardare si evidenziano occorrenze prossime, ma si scoprono anche cause remote.
Tra le motivazioni prossime non bisogna trascurare l’usura del tempo: una fase storica si è conclusa, molti ideali sono tramontati, si è allentata la voglia di fare che ha connotato la ripresa del dopoguerra e il dinamismo degli anni sessanta.
Ma la situazione attuale è anche sintomo di un male antico che ha caratterizzato la politica italiana dopo la formazione dello stato unitario. Il sociologo tedesco Robert Michels (che ha insegnato in vari atenei italiani) già negli anni trenta del secolo scorso parlava di una anomalia, che egli chiamava “la legge ferrea dei partiti”. Secondo la teoria michelsiana, i partiti in Italia tendono a concentrare il potere in cerchie ristrette e, all’interno di queste cerchie, i vari leader polarizzano e bloccano le candidature allo scopo di implementare il consenso e di comprimere il dissenso.
A questo punto viene in mente l’esclamazione di Martin Heidegger: “Forse solo un dio ci può salvare”. Con questa espressione il filosofo tedesco non intendeva fare un’invocazione fatalistica, ma piuttosto segnalare il primato dell’etica per superare il disagio e le contraddizioni in cui si trovava ingabbiata la società in seguito al disastro della seconda guerra mondiale.
In un passaggio del citato discorso di Pericle agli Ateniesi si legge: “Un uomo che non si interessa allo Stato noi non lo consideriamo innocuo, ma inutile”. E più avanti continua: “Un cittadino ateniese non trascura i pubblici affari quando attende alle proprie faccende private, ma soprattutto non si occupa dei problemi pubblici per risolvere le sue questioni private”.
Nonostante il disorientamento generale, oggi come allora, non si può fare a meno di fare politica. Non si può e non si deve restare nello stagno, occorre entrare nel fiume della storia. Per fare ciò non serve urlare e non serve neppure accartocciarsi nel bugno dello sdegno e della depressione. Bisogna mettersi in viaggio tutti insieme. L’impegno politico è la testimonianza dell’esserci e dell’appartenenza, è il modo di vivere nel contesto sociale e nello stato (“polis”). Bisogna fare politica per incoraggiare e organizzare le speranze degli uomini; fare politica per ricercare soluzioni adeguate ai problemi emergenti nella società.
Ma questa co-operazione partecipata deve essere anticipata e accompagnata da una profonda rigenerazione dei partiti che devono rimodularsi aprendosi a nuove forme di rapporti con la società civile.
E questo è possibile se siamo capaci di riscoprire i valori condensati nelle radici culturali dell’umanesimo solidale che caratterizza la tradizione giudaico–cristiana dell’Occidente; sono i valori depositati sulle sponde del Mediterraneo. Come italiani, inoltre, dobbiamo riappropriarci del patrimonio della nostra eredità culturale che il mondo ci invidia.
Questi valori riscoperti e condivisi rappresentano il presupposto per orientare le scelte politiche nella consapevolezza che non tutto ciò che è possibile è anche lecito. Non tutto si può fare, ma soltanto . In estrema sintesi bisogna saper coniugare il processo evolutivo con l’istanza etica e coesiva.
In questa prospettiva appare attuale e degno di riconsiderazione “L’appello a tutti gli uomini liberi e forti” lanciato da Don Luigi Sturzo dopo la prima guerra mondiale. L’accorato appello del fondatore del “Partito popolare” segnalava l’urgenza di restare untiti per un’azione politica centrata sulla “persona la libertà la famiglia e la lotta contro il clientelismo la corruzione la mafia”. L’appello sturziano era allora, e resta ancora oggi, un richiamo accorato al “dovere di cooperare ai fini supremi della patria senza pregiudizi né preconcetti”.
“L’appello” di don Sturzo porta la data del 18 gennaio 1919, ma sembra scritto in questi giorni.