Buffoni e re
“Vergogna!” E' un'esortazione che da un po' di tempo a questa parte sentiamo ripetere spessissimo. Sempre più associazioni di lavoratori, associazioni studentesche, giornalisti ed elettori di ogni estrazione sociale rivolgono questa ammonizione ai rappresentanti del governo che giorno dopo giorno si scoprono essere protagonisti in scandali sessuali, corruzione, abusi d'ufficio, collusioni mafiose e oscenità di vario genere.
Primo tra tutti, il presidente del consiglio, che proprio ultimamente ha fatto molto parlare di sé per l'ennesimo scandalo sessuale, dal quale ha tentato inutilmente (per ora) di salvarsi usando il potere di cui è investito. Aggiunto agli altri processi in cui è imputato, se le accuse si dovessero rivelare vere, ce ne sarebbero di cose di cui vergognarsi. Eppure, sembra che nessuno all'interno del governo intenda fare un passo indietro per giudicare se davvero sia il caso di vergognarsi o meno. Tutti sono nel giusto. Berlusconi stesso ha sostenuto più volte “Non mi devo vergognare”. Eppure sembra proprio che qualcuno debba vergognarsi. Ma come mai non succede?
La parola “vergogna” fa leva sulla morale. Si prova vergogna quando ci si rende conto di aver commesso un'azione che va contro i precetti della morale della società in cui si è scelto di vivere o quando ci si accorge che l'opinione che i nostri compagni hanno di noi è notevolmente più bassa di quella che ci aspettavamo. Il primo caso è abbastanza semplice: commettiamo un'azione che reputiamo riprovevole e per questo ci vergogniamo.
Il secondo caso ce lo spiega molto bene Hobbes quando ci dice che, quando gli uomini hanno deciso di passare dallo stato naturale allo stato civile, hanno messo da parte l'opinione che essi avevano di loro stessi, facendo propria l'opinione della società. Infatti, chi di noi può dire di non aver a cuore l'opinione che gli altri hanno di lui? Quando l'opinione che abbiamo di noi non rispecchia l'opinione che hanno gli altri, proviamo vergogna. Naturalmente, come tutto ciò che affonda le proprie radici nella morale, la vergogna non è un sentimento naturale. Non è propriamente reale, è piuttosto un “plus” che si è silenziosamente formato con la costituzione di un codice morale o civile e che si è rafforzato con l'uso e l'educazione. Gli animali non provano vergogna a girare nudi, noi sì. La nostra cultura, la nostra religione e i nostri usi ci hanno insegnato che andare in giro con solo la nostra pelle addosso è sbagliato e, se lo facessimo, ce ne vergogneremmo. A questo possono essere aggiunte tutta una serie di altre azioni che la religione ha giustamente o ingiustamente (non siamo qui per discutere di questo) sconsigliato di fare. Montaigne nei suoi saggi paragona queste leggi morali ad un fiumiciattolo che con il tempo ha aumentato la sua portata ma che, se andassimo a vederne le origini, lo troveremmo poco più imponente di un rubinetto aperto. Ogni società, cultura o comunità tuttavia ha il proprio fiumiciattolo che invecchiando è stato “rinvigorito e inorgoglito” fino a diventare un vero fiume in piena in cui scorrono precetti, leggi e tutte le regole del vivere civile. In quanto uomini che vivono nello “stato civile” siamo tenuti (inconsciamente per lo più) a rispettarle.
Arrivati a questo punto non sembra che abbiamo fatto molta strada. Tutti gli uomini si vergognano di qualcosa. Conclusione banale. Tuttavia i filosofi parlano di due categorie di persone che non provano vergogna anche quando, secondo le regole del vivere civile, dovrebbero. La prima ce la descrive Hobbes nella sua filosofia politica: è il Monarca. Il monarca, in quanto creatore delle leggi dello stato ne è al di sopra e non è tenuto quindi a rispettarle. Della seconda categoria invece la letteratura è piena. C'è chi li chiama insensati, chi dementi, chi idioti. Hanno tanti di quei nomi che c'è l'imbarazzo della scelta: sono i folli. Non stiamo parlando delle persona affette da patologie naturalmente, ma degli insensati, coloro che “sono ingannati dalla sensazione” dice Erasmo da Rotterdam. Con un termine moderno: i rimbambiti. Tra questi si considerano i bambini, nella loro innocenza e ignoranza, e gli anziani, dolcemente inebetiti dalla demenza senile. Loro tratto distintivo: la risata, sia la loro che quella degli altri che gli stanno attorno. I folli sono al di sopra delle leggi del vivere civile perché non le comprendono, non le vedono addirittura. L'oblio le fa dimenticare o le confonde. In ogni modo, hanno perso il contatto con la realtà e ne fabbricano una propria. I folli di questo tipo, nelle epoche in cui la follia non era considerata malattia, diventavano giullari di corte, comici, buffoni.
Naturalmente esiste vergogna buona e vergogna cattiva, come sostiene anche Montaigne: la cattiva è senza dubbio quella che ci fa vergognare delle nostre azioni naturali, del sesso, della nudità; la buona è quella che ci spinge a migliorarci e ad ammettere i nostri errori. Il fondatore dello stato e il pazzo non ne provano nessuna. Tra loro ci sono anche i pazzi che si credono re e i re che si fingono pazzi. Per tutti loro comunque si dovrebbe chiudere un occhio con il sorriso sulle labbra. Tanto sono più forti o sono pazzi.
Primo tra tutti, il presidente del consiglio, che proprio ultimamente ha fatto molto parlare di sé per l'ennesimo scandalo sessuale, dal quale ha tentato inutilmente (per ora) di salvarsi usando il potere di cui è investito. Aggiunto agli altri processi in cui è imputato, se le accuse si dovessero rivelare vere, ce ne sarebbero di cose di cui vergognarsi. Eppure, sembra che nessuno all'interno del governo intenda fare un passo indietro per giudicare se davvero sia il caso di vergognarsi o meno. Tutti sono nel giusto. Berlusconi stesso ha sostenuto più volte “Non mi devo vergognare”. Eppure sembra proprio che qualcuno debba vergognarsi. Ma come mai non succede?
La parola “vergogna” fa leva sulla morale. Si prova vergogna quando ci si rende conto di aver commesso un'azione che va contro i precetti della morale della società in cui si è scelto di vivere o quando ci si accorge che l'opinione che i nostri compagni hanno di noi è notevolmente più bassa di quella che ci aspettavamo. Il primo caso è abbastanza semplice: commettiamo un'azione che reputiamo riprovevole e per questo ci vergogniamo.
Il secondo caso ce lo spiega molto bene Hobbes quando ci dice che, quando gli uomini hanno deciso di passare dallo stato naturale allo stato civile, hanno messo da parte l'opinione che essi avevano di loro stessi, facendo propria l'opinione della società. Infatti, chi di noi può dire di non aver a cuore l'opinione che gli altri hanno di lui? Quando l'opinione che abbiamo di noi non rispecchia l'opinione che hanno gli altri, proviamo vergogna. Naturalmente, come tutto ciò che affonda le proprie radici nella morale, la vergogna non è un sentimento naturale. Non è propriamente reale, è piuttosto un “plus” che si è silenziosamente formato con la costituzione di un codice morale o civile e che si è rafforzato con l'uso e l'educazione. Gli animali non provano vergogna a girare nudi, noi sì. La nostra cultura, la nostra religione e i nostri usi ci hanno insegnato che andare in giro con solo la nostra pelle addosso è sbagliato e, se lo facessimo, ce ne vergogneremmo. A questo possono essere aggiunte tutta una serie di altre azioni che la religione ha giustamente o ingiustamente (non siamo qui per discutere di questo) sconsigliato di fare. Montaigne nei suoi saggi paragona queste leggi morali ad un fiumiciattolo che con il tempo ha aumentato la sua portata ma che, se andassimo a vederne le origini, lo troveremmo poco più imponente di un rubinetto aperto. Ogni società, cultura o comunità tuttavia ha il proprio fiumiciattolo che invecchiando è stato “rinvigorito e inorgoglito” fino a diventare un vero fiume in piena in cui scorrono precetti, leggi e tutte le regole del vivere civile. In quanto uomini che vivono nello “stato civile” siamo tenuti (inconsciamente per lo più) a rispettarle.
Arrivati a questo punto non sembra che abbiamo fatto molta strada. Tutti gli uomini si vergognano di qualcosa. Conclusione banale. Tuttavia i filosofi parlano di due categorie di persone che non provano vergogna anche quando, secondo le regole del vivere civile, dovrebbero. La prima ce la descrive Hobbes nella sua filosofia politica: è il Monarca. Il monarca, in quanto creatore delle leggi dello stato ne è al di sopra e non è tenuto quindi a rispettarle. Della seconda categoria invece la letteratura è piena. C'è chi li chiama insensati, chi dementi, chi idioti. Hanno tanti di quei nomi che c'è l'imbarazzo della scelta: sono i folli. Non stiamo parlando delle persona affette da patologie naturalmente, ma degli insensati, coloro che “sono ingannati dalla sensazione” dice Erasmo da Rotterdam. Con un termine moderno: i rimbambiti. Tra questi si considerano i bambini, nella loro innocenza e ignoranza, e gli anziani, dolcemente inebetiti dalla demenza senile. Loro tratto distintivo: la risata, sia la loro che quella degli altri che gli stanno attorno. I folli sono al di sopra delle leggi del vivere civile perché non le comprendono, non le vedono addirittura. L'oblio le fa dimenticare o le confonde. In ogni modo, hanno perso il contatto con la realtà e ne fabbricano una propria. I folli di questo tipo, nelle epoche in cui la follia non era considerata malattia, diventavano giullari di corte, comici, buffoni.
Naturalmente esiste vergogna buona e vergogna cattiva, come sostiene anche Montaigne: la cattiva è senza dubbio quella che ci fa vergognare delle nostre azioni naturali, del sesso, della nudità; la buona è quella che ci spinge a migliorarci e ad ammettere i nostri errori. Il fondatore dello stato e il pazzo non ne provano nessuna. Tra loro ci sono anche i pazzi che si credono re e i re che si fingono pazzi. Per tutti loro comunque si dovrebbe chiudere un occhio con il sorriso sulle labbra. Tanto sono più forti o sono pazzi.