Per chi suona il minareto? Piazza Tahir e noi
Con un certo sarcasmo è facile accostare le rivolte anti-autoritarie di Tunisia, Egitto e Libia – per rimanere nel cortile di casa – alle prospettive del Paese più famoso del Nord-Africa: l'Italia. A voler essere spensierati osservatori, le precondizioni politico-economiche convergono ad arte: il grande dittatore, le cricche di potere corrotte, il potere mediatico, le disuguaglianze sociali stagnanti e infiammate dalla crisi economica. Per gli insurrezionalisti più bigotti, mettiamoci dentro anche la repressione poliziesca. Per i meteoropatici, il clima mediterraneo che tutti calorosamente passionali ci accomuna.
Ovviamente nessuno di questi aspetti è nemmeno lontanamente comparabile tra le due realtà. Senza bisogno di ulteriori parole, il solo pensiero offende la condizione estremamente più grave dei popoli magrebini sotto ogni profilo. Il mero fatto che tanti articoli come questo esistano e circolino liberamente per la rete, insieme ai loro autori per strada, basta a rendere la differenza. Se non fosse sufficiente, tra la nostra fuga dei cervelli e i barconi dei rifugiati passa quell'infimo dettaglio, la morte. Rassegnamoci con serenità: l'Italia non è né Egitto né Libia né Tunisia.
Eppure l'adrenalina della primavera magrebina è contagiosa. Il coraggio, la tenacia, l'orgoglio di chi sfida le pallottole e la brutalità dei mercenari per rovesciare non solo un satrapo tiranno bensì un complesso e radicato sistema di potere muove alle lacrime. Sarà che la cappa politica che incombe sulla vita pubblica quaggiù al nord dell'Africa ha un tale sapore di determinismo storico che vien voglia di sperare nella (re)azione umana, in quello stesso moto di rabbia genuina e liberatoria che può invertire – in modo illusorio, come sempre accade – il corso degli eventi. Insomma, la campana – il minareto – di piazza Tahir suona anche per l'Italia? Davvero, esiste la disperazione e la stessa forza d'animo tra i giovani italiani (e chi sennò, i quarantenni di Muccino?) per scendere in piazza.
La risposta più probabile è no. Nonostante tutta la prostrazione economica, lo squilibrio generazionale, le prospettive grigio-piombo sul futuro. Nella rappresentazione collettiva che ci siamo creati dei moti di piazza, delle rivoluzioni, forse persino della 'resistenza' popolare da cui siamo nati come Italia e come democrazia, c'è un elemento decisivo che fa la differenza tra due piazze simbolo: piazza Tahir e piazza Alimonda, a Genova. E' la predisposizione diffusa ad andare in fondo all'essenza ultima della politica: lo scontro fisico. La trasformazione dell'avversario in 'nemico', che implica la volontà concreta di annientarlo, e la possibilità di essere annientati, di perdere ogni cosa.
Chi oggi si augura uno scenario egiziano o libico per l'Italia valuta con una certa dose di compiacimento e leggerezza le conseguenze reali di una rivolta che corre sul filo della guerra civile. E la trasposizione italiana di quello scenario – inutile raccontarsi storie – non è solo la deposizione del tiranno. E' una prospettiva sicura di guerra civile, tale è la polarizzazione della popolazione italiana. E' una prospettiva di centinaia di Carlo Giuliani, con tutto lo shock and awe che quella morte ha creato sui molti. E' una prospettiva, per una generazione di giovani italiani forse angosciati per il proprio futuro ma anche agiati nelle comodità del presente, di perdere ogni aspetto dell'attuale spensieratezza – compresa quella di improvvisarsi in onde di rivolta pomeridiana – per entrare nell'incubo di doversi guardare le spalle, di testimoniare assassinii, di poter perdere amici e familiari. Piazza Tahir è ben più che spedire messaggi su Twitter o una scritta su un muro: piazza Tahir è uno scenario di violenza generalizzata. Piace a tutti mitizzare l'eroismo popolare: piace molto meno sperimentarne i costi concreti. Nella situazione italiana, c'è il sospetto che questa campana suoni solo per i rivoluzionari fanatici e i rivoltosi in foulard e tacchi a spillo.
Per quanto imperfetto, sarebbe un inestimabile risultato del lavorio democratico quello di aver marginalizzato l'opzione del 'tagliare le teste' rispetto a quella di contarle. Simpatizzare profondamente con la sofferenza e il coraggio di un altro popolo non rende né realistico né desiderabile mimetizzarsi a tal punto da non vedere oltre le più abbaglianti schegge di similitudine. Ci consegna però un prezioso interrogativo: viste le travi che pesano sulle spalle magrebine, quanto quelle nei nostri occhi sono solo pagliuzze?