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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 76 - 1 Febbraio 2011 | 0 commenti

L'Arengo del Bevitore

La Sabina è una terra poco conosciuta. Sta nel Reatino, e si sa che d'inverno ci può fare molto freddo. Di certo è un inverno molto freddo quello della fine del Quattrocento in cui Fra' Tonio si aggira per il borghetto della Sabina nel quale la chiesetta di San Peppo della Cosa Buona funge da edificio religioso, e la sacrestia da centro d'igiene mentale in cui i ventisette abitanti del paese si confessano, bevono e giocano a dadi con lui. Ma questo nei mesi estivi; quando il gelo penetra le pareti, tutti s'accoccolano al camino e Fra' Tonio vede le sue anime contate solo la domenica, o per strada se esce, che anche lui ha molto freddo e se ne sta nella canonica a bruciar della legna che gli porta il falegname dagli scarti, o quando la va a fare.
Quel sabato, però, Fra' Tonio prepara i paramenti per la Messa dell'indomani e si accorge che non ha vino da ostendere nel sacro rito domenicale. E' per questo che butta sulle spalle un grosso rettangolo di un'ispida stoffa pesante, e esce a soffiar fiato bianco nel buio trasparente della sera.
Passano dieci minuti prima che Fra' Tonio entri a casa di Nella la mugnaia.
«Fra' Tonio, cosa fate qui? Entrate, entrate, vi prego».
Il frate entra e la donna gli toglie di dosso la povera cappa. Vede che nei calzari ci sono solo i piedi blu di chi ha le punte del corpo congelate, e lo porta al camino, e lo fa sedere, e gli prende in mano i piedi.
«Nella, scusami se vengo a quest'ora, e lascia fare coi miei piedi, che al limite dovrei lavare io i tuoi. Ma dimmi, hai del vino?»
La donna lo guarda con aria abbattuta. «Mi dispiace, padre. Posso darvi del brodo, se ne volete. E' buono, abbiamo persino ammazzato una gallina».
Fra' Tonio la guarda con l'aria buona che solo gli uomini dell'ordine mendicante riescono ad avere, vera, quando sorridono. «Ma sorella, figlia mia bella, cara» si sfrega le mani sulle cosce il frate. «Non è questo, Nella. Oggi preparavo le cose per la Messa, e non ho più vino. Me ne serve per fare il sangue di Cristo, domani».
«Oh, padre, non ha il vino. Come si fa! Come si farà domani, a Messa! Potessi aiutarla. Non ne abbiamo più un goccio da giorni. Nuove imposizioni del Gransignór del Borgo. Quel poco che avevamo, tutto a lui, che le sue cantine scarseggiavano. Non abbiamo più niente, se non le mura di una casa che non ci appartiene. C'era rimasto solo il vino, e tra tutto ci pareva che potesse essere l'unica cosa nostra. L'unica che non ci sarebbe mai mancata, che ci faceva andare a letto e dormire invece di preoccuparci. Così invece andiamo a letto e bestemmiamo».
«Possibile mai». E la guarda duro. «Ma ti assolvo in nomine patri, fili» sospira facendo su e giù e destra sinistra con la mano «e spirisàn». Dopo un attimo di silenzio chiede: «E gli altri?»
«Non so, ma non credo. Mio marito dice che le guardie sono andate anche da Ennio il sellaio, e uguale. Dopo averlo picchiato gli hanno tolto l'asina, poi tutto il cuoio, l'altro giorno persino il martello. Ma ora il vino. Pure Ennio è sconvolto».
«Poffare. Ci lascia al gelo e senza vino, così». Il frate si riscalda un poco e beve il brodo, poi torna in canonica.

La mattina successiva, di buon'ora, Fra' Tonio sbuca dall'accovaccio e si getta nel camposanto per cercare il beccamorto.
«Ohilà, Túrpio!» a quello che scava.
«Fra' Tonio, come state».
«Hai vino o l'han tolto anche a te?»
«Possibile che siate sempre l'ultimo a sapere? Forse dovreste ripensare a quanto davvero vi dicono le vostre anime quando vogliono essere assolte. Vino, non ce n'è da giorni. Vedete come sono smunto».
Allora Fra' Tonio va da Bartolomeo il pittore, che beve sempre molto. «Non dormo da tre giorni. Senza vino, non m'addormento. Senza vino, non dipingo. Se non cambia, son rovinato. Il Gransignór mi aveva preso i quadri, ma quelli ne potrei sempre fare altri. Solo che se mi toglie il vino mi può togliere anche il pane, che muoio lo stesso. E poi, intanto, mi ha tolto anche i soldi per fare le tele e i colori. Ma senza vino, Fra' Tonio. E' difficile».
Si sposta nei campi per cercare Giovannolo il contadino. «Che vi devo dire, Fra' Tonio. Il Gransignór del Borgo mi ha preso un figlio a lavorare e non l'ho più visto, ora mi prende anche tutto il vino. Tutto! Non ne ho più un goccio. Chissà dov'è mio figlio, e se ha da bere».

Fra' Tonio s'incammina allora per il verso della canonica, e per strada incontra Matilde la prostituta.
«Sorella mia! Il cielo ti manda».
«A dirla com'è, mi manda quel gran porco del maniscalco. Non mi paga da settimane, però mi prende lo stesso».
«Sia lodato Gesù Cristo».
«Sempre, Tonio. Sempre sia lodato. Ma quando mi chiami sorella vuoi dei soldi, e non ne ho».
«Veramente, mi manca il vino per la funzione».
«Ancor meno. Mi tocca fare doppio lavoro di benvenuto, che non ce n'è per farli aspettare. Anche le altre sono a secco».
Fra' Tonio si guarda intorno, si smuove la veste, vede che non può far niente e si mette a piangere.
«Che hai, To'» fa Matilde mentre si avvicina e lo abbraccia. «Su, su! Ti rimane sempre Dio, no?»
«Sì che ce l'ho» dice il frate mentre asciuga le lacrime sul petto della donna. «E mi ha detto che cosa devo fare».

Il giorno dopo Fra' Tonio fa uscire donne e uomini dalla chiesa e li raduna nell'arengo. Spiega che non può celebrare il rito dell'eucarestia, perché gli manca il vino per fare il sangue di Cristo. Bratildo il pesciaiolo gli urla di metterci del sangue di qualche animale, nell'ampollina, tanto è di metallo e Dio da lontano non ci può mica vedere dentro. Ma Fra' Tonio risponde che, a parte il fatto che a lui fa schifo bere il sangue delle bestie, Dio vede anche attraverso il metallo. Con un «ah, beh» Bratildo mostra d'esser stato convinto.
Insomma, non si può andare avanti così. Non c'è il vino per la tavola, e nemmeno per il frate che deve dire la Messa. La gente comincia a parlare, e s'anima facilmente. Tempo cinque minuti, si dicono a gran voce di voler assaltare il palazzo del Gransignór del Borgo. Tempo mezz'ora, sono al portone del Gransignór del Borgo. Tempo quattr'ore, son tutti dentro, con dodici guardie infilzate, il Gransignór legato in mutande a una sedia e sottoposto a sberleffi se va molto bene, a sputi se va bene. Donne e bambini sono rinchiusi nelle stanze migliori, per essere spediti a qualche convento di suore: ma tutto questo non si decide ora, come non ci si approfitta della fortuna illegittima del ricco.
Al primo cenno di vandalismo, Carlo il cenciaiolo salta su e fa: «No!». Tutti si zittiscono, poi prosegue: «Dobbiamo essere al di sopra, che meglio siamo. Chissà che un giorno qualcuno non scriva una poesia su di noi! Siam gente che non ruba, e che i sogni ce l'ha. Prendiamoci solo il vino, andiamo a sentire la Messa e poi alle case a divertirci. Ma domani bisogna vederci tutti, che le guardie vanno seppellite, e il Gransignór processato. Poi ci riprenderemo tutto quel che ha tolto».

Un'ora dopo Fra' Tonio benedice il calice del vino. Due ore dopo le persone fanno all'amore nelle loro case. Tre ore dopo si trovano nell'arengo per festeggiare, con tutto il vino che c'è. La mattina dopo si svegliano tutti nell'arengo, e tutti hanno gli occhi pesti, tutti hanno il mal di testa, e tutti si mettono lo stesso a discutere il daffare. In una giornata di lavori incessanti dichiarano lo Stato Libero del Borgo della Sabina e scelgono come bandiera una tovaglia macchiata di vino. Graziano il Gransignór mandandolo in esilio con tutti i suoi quattrini, anche quelli estorti, che a loro nel nuovo Stato Libero non serviranno. Tutti però ritrovano le cose vere: Giovannolo il figlio, Bartolomeo i quadri, Ennio il martello, il cuoio e l'asina, che le vuole tanto bene, forse più che Giovannolo al figlio.
C'è chi ringrazia San Peppo della Cosa Buona, chi si lamenta perché avrebbe voluto squartare il Gransignór del Borgo, ma sono tutti insieme a decidere qualcosa e quindi nessuno prende l'iniziativa da sé.
Sono di nuovo ubriachi quando decidono che da domani non ci si riunirà più senza bere del vino. Che tutto sommato, la garanzia della pace la dà il brindisi a qualcosa di sacro o secolare, «non importa», come dice Fra' Tonio, «il Signore» (e ai mugugni della gente risponde indicando in su), «non il Gransignór, voglio dire, quel Signore lassù. Il nostro Signore, il buon Dio, ci ha creati per star bene, quindi brindiamo un po' a tutto». Dall'arengo dei bevitori si leva al cielo un gran coro di lodi al Signore e pacche sui sederi, risate e canti e rutti.

Ed ecco come la mancanza di vino scatena una rivolta capitale alla fine del Quattrocento. E come per anni tutto viene gestito da un pugno di ubriaconi raccolti in un arengo, aiutandosi e non facendosi più mancare nulla di ciò che serve: Nella dà la farina a tutti, Bratildo dà il pesce a tutti, Giovannolo fa nei campi per tutti e Túrpio tumula chi muore.
Finché un nipote astemio e arrivista di uno di loro non s'inventa il consolato di quell'arengo, tutto va a puttane e si può ricominciare con un altro racconto.

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