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Scritto da nel Economia e Mercati, Numero 76 - 1 Febbraio 2011 | 0 commenti

Fiat e Fiom


Non si puo’ non essere stupiti dalla enfasi eccessiva che viene riposta da una parte considerevole del mondo imprenditoriale (FIAT, CONFINDUSTRIA e altre organizzazioni imprenditoriali) e da una parte della stampa sul costo del lavoro e sulla produttivita’ che vengono spesso valutati e considerati quali elementi isolati dei risultati aziendali mentre la pratica diagnostica nell’analisi economica aziendale tenderebbe a collocarli in un ambito di analisi di correlazioni possibili. In questa impostazione (e nella mia esperienza professionale) il costo del lavoro deve essere correlato al valore aggiunto, ovvero, al risultato complessivo ottenuto dal processo organizzativo aziendale nel suo complesso dati i costi esterni delle risorse acquisibili sul mercato degli approvvigionamenti (per capirci il VA e’ uguale alla differenza tra ricavi vendita e costi esterni di acquisizione delle risorse). Credo sia piu’ opportuno osservare, quindi, nel tempo il valore del costo del lavoro relativamente all’andamento del valore aggiunto che ha il compito di remunerare il costo del lavoro (costi fissi e variabili), gli impianti e il capitale sociale. E’ all’interno di questa grandezza che si potra’ evidenziare come  sono stati remunerati negli anni i fattori citati (impianti, capitale e lavoro e per FIAT verra’ fatto ad una prossima occasione per l’Arengo). Se poi si considera che il costo aziendale del lavoro per FIAT sembrerebbe attestarsi su valori inferiori al 10% del totale dei costi (dato da verificare) allora le considerazioni sull’utilizzo “politico” dei dati di bilancio diventano pregnanti e spostano l’ottica della riflessione su altre dimensioni. A tale scopo molti osservatori si chiedono se le vicende di Pomigliano e di Torino culminate nei referendum non rappresentino i passaggi di una battaglia di principi per regolare i conti con una parte del sindacato scomoda per un progetto di restaurazione politica nel quale emerge l’obiettivo di flessibilizzare la forza lavoro rispetto alla centralita’ dell’impresa. 
Ancora una volta si afferma, quindi, il primato del capitale finanziario e del ROE che l’azienda deve garantire agli azionisti quando una possibile lettura evolutiva dell’impresa oggi, per lo meno in un paese avanzato qual’e’ l’Italia, sembrerebbe sottolineare il ruolo sociale dell’impresa con una vision ed una mission che dovrebbero spostare l’attenzione verso un buon equilibrio di partecipazione, di potere, di distribuzione delle risorse tra i diversi soggetti in campo: azionisti, lavoratori, management, clienti, fornitori e istituzioni. In una prospettiva di questa natura il ruolo del governo centrale e delle autonomie locali sarebbe non solo auspicabile nel caso della piu’ grande azienda italiana, ma addirittura indispensabile per il valore simbolico che potrebbe assumere la prospettiva realmente praticata ed agita dell’impresa sociale (coinvolgimento, partecipazione, identificazione, remunerazione per obiettivi, integrazione sociale e territoriale….).
Una possibile ipotesi in termini di ricaduta sul clima e sulle relazioni industriali potrebbe configurarsi nella diversa motivazione al lavoro che conseguirebbe al coinvolgimento e alla partecipazione dei lavoratori. La leva motivazionale, come ben sappiamo, e’ il fattore per definizione che contribuisce principalmente alla effettuazione di performance individuali e di gruppo superiori alla media.
Una seconda considerazione anche questa abbastanza curiosa sta nella scarsa attenzione agli elementi competitivi veri nel business auto (sembra per lo meno alla lettura dei quotidiani) in questa fase del mercato ormai matura: aspetti come la innovazione e la velocita’ dei cambiamenti dei tipi e dei modelli rispetto ai molteplici target di mercato, l’auto pulita, gli aspetti competitivi collaterali, la customer care e altri aspetti della competizione che stanno emergendo come elementi competitivi distintivi contribuiscono alla definizione di una organizzazione dell’azienda che deve presidiare tali elementi in termini di competenze e di risorse finanziarie destinabili non certo alla produzione e alla catena di montaggio. Allora questi elementi della competizione aziendale sono presidiati al pari della organizzazione della produzione? La discrezione aziendale sul piano industriale dell’azienda consegna queste riflessioni alle sensazioni del cittadino consumatore e, da questo punto di vista, la mia personale opinione e’ che la capacita’ competitiva di FIAT e’ oggi abbastanza debole e decisamente carente sulla capacita’ di soddisfare tutti i target del mercato. In termini di immagine le dinamiche competitive delle aziende tedesche sono ben piu’ efficaci (per lo meno nella comunicazione) rispetto a FIAT.
Una ulteriore considerazione che mi preme proporre riguarda l’organizzazione del lavoro (ovvero i processi organizzativi deputati alla produzione del Valore Aggiunto): come e’ noto e’ l’azienda che e’ chiamata a decidere come deve funzionare l’organizzazione del lavoro, come si configurano i processi organizzativi, quali tecnologie introdurre con i conseguenti mutamenti dell’ organizzazione del lavoro umano. Spetta all’azienda il ruolo di decisore dell’ organizzazione ed e’ affidata ai quadri intermedi aziendali un ruolo di presidio e di gestione dei cicli produttivi. La domanda che sorge quasi spontanea allora e’: hanno veramente tanta “liberta’”ed autonomia gli operai nel ciclo produttivo per influenzare il livello di produttivita’ mettendo in azione comportamenti autonomi che possono abbassare i tempi di produzione, le connessioni intraorganizzative, le interruzioni di manutenzione, i rifornimenti da e per il magazzino mettendo in crisi la tecnologia e il capo?
Approfondimenti verranno proposti sulla FIAT, soprattutto sul bilancio e sui rapporti tra i valori del conto economico quanto prima

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