Fatti non foste a viver come bruti
“Fatti non foste a viver come bruti
ma per seguir virtute e canoscenza“
Dante Alighieri, Inferno, canto XXVI, 119-120
Per chi e' cresciuto leggendo i fumetti di Asterix e Obelix, i barbari (che appaiono nell'episodio Asterix e i Normanni) sono in primo luogo un popolo che non conosce la paura e fa un uso smoderato della crema, al punto da accompagnarla al cinghiale e alla crema stessa.
Sfortunatamente un tipo diverso (decisamente meno simpatico) di barbari- o meglio di barbarie- infesta la societa' moderna. Nell'eta' della globalizzazione i barbari non sono gli stranieri portatori di usi e costumi diversi (e con un pessimo gusto culinario), ma coloro che mostrano ostilita' alla civilizzazione e perseguono, piu' o meno consciamente, l'annullamento della civilta' in se' e negli altri1.
Si noti che “civilizzazione” va qui intesa come il processo di avvicinamento ad uno stato avanzato della societa' umana, caratterizzato da un elevato livello di cultura, scienza, tecnologia e governo, spogliando il termine, nei limiti del possibile, di quei connotati controversi che gli possono essere attribuiti.
Se riconosciamo nell'istituzione delle universita' la piu' consapevole delle azioni intraprese da una collettivita' per progredire nella civilizzazione, allora una delle forme attraverso cui si manifesta la barbarie nella societa' moderna, e' l'attacco al sistema universitario o piu' precisamente all'università in quanto istituzione generatrice di pensiero critico autonomo.
Se si guarda al sistema universitario nel suo complesso e con un minimo di distacco, e' facile accorgersi come vada sempre piu' assomigliando ad un business globale che opera all'interno di un mercato per un bene costoso, ovvero l'istruzione superiore. E sono parole dell' Economist in un articolo dello scorso 25 Marzo2, dove infatti, tra le altre cose, si racconta come a livello mondiale piu' di tre milioni di studenti siano immatricolati in universita' al di fuori del proprio paese di cittadinanza.
L'universita' e' progressivamente considerata come la dispensatrice di un servizio privato piuttosto che di un bene pubblico generatore di benefici a breve e lungo termine per la collettivita'. Questa concezione dell'universita' e' necessariamente legata al ruolo attribuito alla ricerca e all'idea di conoscenza prevalente.
Senza avventurarsi in una esplorazione del ruolo della conoscenza nella societa' post-moderna e in quella post-postmoderna (e senza tirare in ballo le questioni del potere, dell'identita', dell'egemonia, etc), ci si puo' limitare a riconoscere che quello che domina e' un approccio utilitaristico. Ne' l'importanza della ricerca ne' quella della conoscenza cioe' sono messe in discussione (basti pensare alla centralita' che il capitale umano riveste nelle teorie della crescita economica), ma la loro legittimita' ontologica si basa sulla loro capacita' di produrre risultati concreti e misurabili (o perlomeno chiaramente identificabili) al servizio di uno scopo ben definito.
Ne e' un chiaro esempio la recente introduzione nel sistema accademico britannico del Research Excellence Framework (REF), che andra' a sostituire il pre-esistente Research Assessment Exercise (RAE). Entrambi sono sistemi di valutazione della qualita' della ricerca, sulla base dei quali sono distribuite le risorse alle universita' da parte degli enti finanziatori. La valutazione e' compiuta con cadenza quinquennale e termina con la pubblicazione di una classifica di tutte le universita' esaminate. Entrambi i sistemi utilizzano una serie di indicatori di eccellenza (che guardano principalmente alla quantita' e al prestigio delle pubblicazioni), ma il REF introduce l' “impatto” tra i criteri di valutazione. Sara' cioe' richiesto di (di)mostrare i benefici suscettibili di ricadere sull'economia, la societa', la politiche pubbliche, la cultura e la qualita' della vita, dei progetti intrapresi. L'implicazione e' che solo la ricerca che puo' concretamente dimostrare la sua utilita', preferibilmente con benefici che si esplicano nel breve periodo, verra' finanziata e dunque intrapresa.
Come e' facilmente immaginabile, se il RAE non e' mai stato molto popolare tra gli accademici del Regno Unito, il REF sta suscitando uno sdegno generalizzato. Non tutte le posizioni dei detrattori dei due sistemi di valutazione sono probabilmente condivisibili, ma qui sembra rilevante sollevare alcune domande che prendono spunto da questa vicenda e dal conseguente dibattito.
La premessa e' che non si obietta la necessita' di adottare criteri comuni e trasparenti per la ripartizione dei fondi per la ricerca e tanto meno l'obiettivo esplicito di porre l'universita' al servizio della societa' e di caricarla di responsabilita' in tal senso.
Ma e' opportuno mettere la ricerca nella condizione di dover continuamente giustificare se stessa? O si rischia di limitarne l'indipendenza? E non si corre lo stesso rischio ponendo una certa istituzione nella posizione di poter definire per tutti cosa costituisce l'eccellenza nelle scienze umane e in una certa misura anche nelle scienze sociali? Esigendo inoltre di dimostrare l'impatto di un progetto di ricerca, non si sposta tutta l'attenzione sul risultato trascurando i processi? Inoltre non si incentivano i ricercatori a rifuggire i progetti complessi o con risultati contestabili, poiche' solo dimostrare il loro impatto richiederebbe un intero progetto di ricerca?
Ed ancor di piu', non dovremmo riconoscere che in una certa misura la conoscenza si espande senza conoscere la propria meta e il proprio fine? Non dovrebbe una societa' “civilizzata” essere in grado, almeno fino ad un certo limite e con tutte le premesse del buon senso, di finanziare anche un po' (almeno un po') di ricerca fine a se stessa?
Infine, una domanda che prende spunto da una riflessione sul ruolo dell'università nella societa' moderna. Secondo Ronald Barnett, Professore di Higher Education e Preside del Dipartimento di Professional Development all'Institute of Education della University of London, in una societa' in cui ogni valore, pratica e rappresentazione e' contenstabile, incerta e sottoposta a cambiamento, non c'e piu' spazio per un modello di universita' votato al perseguimento della Conoscenza e della Verita' quali entita' fisse e pre-esistenti che devono solo essere conquistate. La funzione dell'università deve al contrario essere quella di educare a vivere nella contestazione e a tenere sotto controllo l'ignoranza3.
Ricordandosi quanto detto a proposito della barbarie, si puo' qui pensare al controllo dell'ignoranza come alla capacita' di riconoscerla, accettarla e nonostante questo progredire verso un piu' elevato livello di civilizzazione.
La posizione di Barnett e' forse un po' estrema, ma non si puo' fare a meno di chiedersi quanto un'universita' basata su un approccio utilitaristico alla conoscenza e costretta a giustificare continuamente la ricerca intrapresa sulla base di indicatori di impatto, sia anche in grado di insegnare a convivere con la contestazione, a gestire l'ignoranza e dunque opporsi alla barbarie.
1L'autrice e' riconoscente a Professor Mark Hobart della School of Oriental and African Studies di Londra per averle suggerito questa definizione di barbarie e per una proficua chiaccherata sul ruolo della ricerca nell'eta' della barbarie.
Nella versione originale: “By barbarism I mean hostility towards civilization; the effort, conscious or unconscious, to become less civilized than you are, either in general or in some special way, and, so far as in you lies, to promote a similar change in others”. R.G. Collingwood, The New Leviathan, Clarendon Press 1992.
2“Leagues Apart”, The Economist” (printed edition), 25 Marzo 2010
3Si veda Ronald Barnett “What Role for University?”, The Independent; 26 Giugno 1997 e dello stesso autore “Higher Education: A critical Business”, Open University Press, 1997.