Barbarie cooperative
Con i suoi 19 milioni di lavoratori (quasi 30 se si contano anche i volontari a 'tempo pieno') e 110 miliardi di dollari di fatturato, il settore no-profit potrebbe di fatto sedere al G8 come rappresentanza dell'ottava economia mondiale (davanti alla Spagna, la Russia e il Canada).
10 milioni di organizzazioni no profit locali e nazionali e ben 40.000 associazioni internazionali rappresentano il panorama vastissimo e multiforme di una 'società civile globale' – spesso animata dall'opposizione alle politiche neoliberiste – che spaventa istituzioni sovranazionali, governi e imprese. Non sempre, però. Mentre molte realtà continuano a rimanere critiche, indipendenti e ad esprimere tramite i progetti contenuti politicamente radicali, altre realtà, invece, si stanno piegando al business o alle politiche governative, trasformandosi in uno strumento subordinato alle logiche economiche e di potere dominanti.
Espressione di una crescita della società civile, della partecipazione alla vita della comunità, di maturazione democratica, le realtà cooperative sono in vari casi anche figlie di qualcos'altro. E non proprio di qualcosa di buono. Non si tratta solo del fiorire di un certo 'business' di impresa, di un progressivo propagarsi di un velato asservimento politico-istituzionale, di un certo appiattimento ideale. Nella preoccupante parabola di alcune organizzazioni di no-profit e di volontariato – alla ricerca di soldi e/o di affermazione – si intravedono i tangibili tratti della mancanza di scrupoli che spinge a gestire i programmi, i progetti e le attività accettando logiche di tipo militare, legittimando le discriminazioni sociali, la violazione dei diritti di cittadinanza, tacendo sulla violazione dei diritti umani.
Questo tipo di organizzazioni sono state ribattezzate in modo fantasioso negli ambienti più attenti a quello che succede nel mondo non governativo: Gongo (governmental organized NGO), ovvero ONG promosse dai governi; Gringo (governmental regulated and initiated NGO), ovvero ONG fondate o sotto controllo dei governi; Bingo (business initiated NGO), cioè le ONG espressione diretta delle multinazionali o delle imprese; Mango (Mafia NGO); Bringo (Briefcase NGP), ovvero le ONG 'usa e getta' nate solo per accaparrarsi i finanziamenti; Mongo (My own NGO), create ad uso personale e controllate da un'unica figura, per i propri affari. Stimare quante delle realtà presenti nel terzo settore possano essere così etichettate è molto complesso, si può d'altronde affermare che pur non costituendone la maggioranza, sono una parte rilevante.
Nella galassia del Terzo settore sono dunque presenti diverse anime. Rinunciando a cogliere le zone grigie e ricorrendo alla semplificazione se ne possono individuare due che rappresentano i due estremi: una ormai legata al 'business', allo scimmiottamento delle imprese profit e all'integrazione subalterna (ovvero al consociativismo) nel mondo politico istituzionale; l'altra decisa a difendere la propria autonomia politica e sociale, consapevole che la legittimazione proviene non dai donatori ma dal radicamento sociale, dal mettere al primo posto non la propria 'sopravvivenza' (economica e organizzativa), ma i diritti e le speranze di trasformazione sociale e politica.
Nel panorama appena descritto si vanno ad innestare inoltre le politiche nazionali di sostegno alla cooperazione allo sviluppo, anch'esse portatrici di interessi particolari.
Analizzando infatti più da vicino la destinazione dei fondi per la cooperazione allo sviluppo in Italia emerge come, ancora oggi, questa sia purtroppo dominata dall' “aiuto legato” (cioè dall'obbligo dei Paesi beneficiari di acquistare beni e servizi dalle imprese italiane), dalla sudditanza alla politica commerciale del Ministero dell'Economia, dall'export del “made in Italy” e, magari, come in Afghanistan, dall'intreccio con l'interventismo militare. È una cooperazione “di servizio”, subalterna alla logica di un mondo che nel frattempo è radicalmente cambiato. E, last but not least, è una cooperazione senza soldi, a cui Tremonti, con il silenzio complice del Ministero degli Affari Esteri, ha tagliato tutto quello che era possibile tagliare.
Gli aspetti negativi dell'attuazione dell' 'aiuto-legato' appaiono evidenti: innanzitutto si è calcolato che dal punto di vista economico l'impossibilità di ricercare a livello internazionale il prezzo più conveniente provoca un aumento dei costi per il beneficiario che va dal 15 al 30% rispetto all'esito di una competizione internazionale.
Oltre al fatto che l'acquisto di beni e servizi nel Paese beneficiario, quando questi vi siano, è un contributo importante all'economia locale. Naturalmente le ripercussioni non sono solo di carattere finanziario ma incidono fortemente anche sulla qualità dell'aiuto stesso. Infatti un aiuto legato disattende la natura stessa dell'aiuto andando a beneficio del Paese donatore piuttosto che di quello ricevente, senza contare le difficoltà che questa pratica crea sia per lo sviluppo di servizi e capacità locali nel Paese beneficiario che per l'armonizzazione e il coordinamento tra i vari donatori.
Dagli ultimi dati disponibili (2006) l'Italia risulta a altissimi livelli di 'aiuto-legato' sia in relazione all'APS totale (Aiuto Pubblico allo Sviluppo) (21%) sia soprattutto nei confronti dell'aiuto genuino, ossia al netto della cancellazione del debito, rispetto al quale si arriva addirittura al 71%. Nessun Paese in Europa è riuscito a far peggio.
In una fase storica di crisi strutturale come quella attuale il terzo settore sembra quindi attraversare, sia in Italia che a livello internazionale, una sorta di crisi di identità: la trasformazione 'professionale' e 'imprenditoriale' subita, la dipendenza dalle istituzioni (i bilanci di gran parte delle ONG dipendono per l'80-90% dai fondi pubblici) e la perdita di radicamento nella società civile ha trasformato una parte delle ONG stesse in qualcos'altro. Agli appuntamenti di politica internazionale che hanno fatto scattare la mobilitazione e la solidarietà popolare (gli interventi umanitari in Afghanistan e in Iraq, il Forum sociale mondiale di Porto Alegre, i movimenti contro la globalizzazione,…) molte ONG sono arrivate tardi e in posizione di basso profilo. Non per orientare e influenzare l'opinione pubblica mobilitata, ma per ricavarne progetti da presentare ai donatori. Niente di male; ma questo tipo di approccio le condanna inevitabilmente alla residualità e alla subalternità.
La crisi ha inoltre facilitato sempre di più l'espansione di 'Gringo', 'Bingo', 'Mongo', ecc…
L' Agenda for Action” (AAA) firmata ad Accra (Ghana) nel 2008 rappresenta sicuramente un importante passo avanti verso la definizione di standard di efficacia nell'operato del Terzo settore: l'inclusione della società civile, quale attore imprescindibile per la definizione degli obiettivi e del lavoro da svolgere, la maggiore trasparenza delle azioni finalizzate agli interventi di sviluppo, il riconoscimento dei diritti umani, della parità di genere e della sostenibilità ambientale come punti di riferimento costanti nella definizione delle priorità.
E' da qui che le ONG internazionali dovranno intraprendere il cammino del rinnovamento e della riforma nelle strategie di intervento.