XXVII – A quale Itaca volevi tornare
Capitolo Ventisettesimo
Dove Zenone e lo scriba si trovano nei pasticci
Quello che ha rovinato quest'isola – dice Laerte – …quest'isola ch'era così bella, si stava così bene… ti ricordi Zenone com'era bella quest'isola?, come si stava bene? …piena di gente semplice, sconosciuta e libera da tutti gli stranieri che oggi camminano per la città come fosse loro, e le mogli che vivono del lavoro per gli stranieri nelle taverne, …e la baia, là…
La baia delle baccanti esiste ancora? – Zenone s'era riempito di nostalgia per i bei vecchi tempi.
- …sì, la baia delle baccanti, che attira gli Achei del Peloponneso, che sono i più insopportabili di tutti,… ma una volta era bella, Itaca… e quando si partiva per mare, poi era dolce il pensiero di tornar qui, ma adesso non ci sarebbe più nemmeno un'Itaca per desiderare il ritorno… adesso non c'è più niente – diceva Laerte pieno di lacrime di rabbia che gli rimanevano negli occhi – …beh insomma quello che volevo dire: quel che ha rovinato quest'isola erano tre ragazzi e un cane – dice Laerte – uno ho avuto il piacere di spaccare le sue ossa con le mie mani, l'altro se l'è preso Poseidone nella sua infinita bontà, …e questo vorrei dire che mi rallegra, non fosse che quest'ultimo bastardo è figlio mio, e certe volte mi ricordo ch'è figlio mio e mi taglerei le palle, mi taglierei – e pronuncia Laerte un secondo rutto, come a metter la punteggiatura.
Dei tre – dice Palamede a Zenone, più serio che mai – …dei tre col cane – dice – due sono morti, il cane è vecchio… beh – dice a Zenone che aveva già cambiato colore tre volte – …tu Zenone a quale Itaca volevi tornare, hai detto?
Un attimo, un attimo – grida Laerte, per la sorpresa di tutti – …guarda bene con attenzione questo rametto, prima di rispondere – e con una candela gli dà fuoco – …guarda bene… – fa girare il rametto con dei movimenti su e giù per non bruciarsi le dita e mantenerlo diritto, Adesso gli avvolgo intorno il fumo – dice – tiro e guarda, guarda! – e Zac!, lo stecco si rompe in due misteriosamente, come già quella mattina davanti allo scriba, che non capisce niente di quel che si dice e sorride come un babbeo.
Allora Zenone – dice Palamede – a quale Itaca volevi tornare?
Un momento, un momento! – grida Zenone, temendo il peggio – …non ho nessuna intenzione di… non sono venuto per… non mi aspettavo che…
Per Bacco, finisci almeno una frase! – Palamede lo prende per un polso, Laerte incendia un altro rametto e gli sbruciacchia un braccio: Qui le vostre storie non ce le vogliamo più, Zenone,… – ma Zenone prende dal suo piatto un'orecchia di maiale, ch'era la base di quel pranzo, e la infila in gola per la bocca aperta di Laerte, senza lasciarlo finir di parlare; si svincola da Palamede e corre fuori, seguito dallo scriba.
Dove andate? – Telemaco, il piccolo merdoso che giocava nel frutteto sputacchiando s'un formicaio, gli s'era messo proprio davanti. Palamede gl'era già addosso: il tramontar del sole, quella sera, Zenone e lo scriba l'avrebbero visto dalla finestra a sbarre della soffitta di casa, usata un tempo come fienile: rinchiusi nella soffitta, i nostri due malcapitati, senza una via d'uscita.
(continua…)