Novembre 1989: la caduta del liberismo
Venti anni fa la caduta del muro di Berlino è diventata il simbolo del crollo di tutti i regimi socialisti dell'Europa Orientale e dell'ex-URSS e dell'inizio della loro transizione economica e politica. Si è trattato di un evento unico nella storia del genere umano: nell'arco di due anni un complesso sistema economico in cui vivevano e lavoravano centinaia di milioni di persone ha cessato di funzionare ed è diventato necessario farlo ripartire su nuove basi strutturali.
L'Occidente ha interpretato questo evento come il trionfo del capitalismo di mercato, della democrazia, e degli ideali che ne stanno alla base. Così scriveva Henry Anatole Grunwald (ex direttore del Time) nel maggio del 1990:
“Il comunismo è imploso. [...] Le eresie di ieri sono le promesse ufficiali di oggi, i dissidenti di ieri sono i governanti di oggi. [...] Questa rivoluzione, e la domanda di democrazia che investe quasi tutto il globo, può essere ben considerata come il più grande progresso del XX secolo. È uno straordinario successo per il sistema democratico-capitalistico, che ne testimonia la sua solidità, la fondamentale giustezza della sua filosofia, e la bontà delle politiche attuate in passato nei confronti delle potenze comuniste.”1
Ecco allora che in tanti (ed in particolare il Fondo Monetario Internazionale, la Banca Mondiale, la Germania e gli USA) sono corsi al capezzale dell'impero sovietico, con al seguito legioni di economisti stanati dai Dipartimenti di Europa e d'America, per mostrare ai nuovi dirigenti politici le magnificenze del libero mercato. Ed ecco gli economisti del Fondo, della Banca Mondiale, e delle migliori Università, mettersi a tavolino ad elaborare politiche monetarie, fiscali, liberalizzazioni, privatizzazioni, ecc.; e gli ex-paesi socialisti in molti casi diligentemente seguire i suggerimenti forniti. Non che vi fossero molte altre possibilità da parte di questi ultimi, del resto, visto che gli aiuti internazionali del Fondo e dei governi occidentali erano spesso condizionati all'adozione da parte dei beneficiari delle politiche “consigliate”.
A dispetto delle speranze iniziali e delle promesse dell'Occidente, la transizione dei Paesi dell'Est Europa e dell'URSS dal socialismo al capitalismo di mercato ha generato una immensa recessione, un boom di disoccupazione, ed un peggioramento generalizzato e sostanziale di tutti gli indicatori della qualità della vita.2 In Europa Orientale la recessione è durata tra i 3 ed i 4 anni, ed il PIL è caduto del 20-30%; nell'ex-URSS è durata più di 7 anni, con una seconda recessione nel 1998, e la produzione si è ridotta si è contratta di oltre il 50%. Il tasso di disoccupazione nella regione ha raggiunto valori a due cifre, tra il 10 ed il 20%. Infine, la crisi ha generato conseguenze particolarmente nefaste per la qualità (e la quantità!) della vita nella popolazione. La mortalità è cresciuta (in particolare tra i giovani e gli adulti), il tasso di fertilità (il numero di bambini nati per donna) si è ridotto, ed indicatori come la percentuale di fumatori, i tassi di alcoolismo, e le morti per fattori legati allo stress (come le sindromi cardio-vascolari) hanno conosciuto una enorme impennata in tutti gli ex-Paesi socialisti.
Perchè questo fallimento economico? Dove hanno sbagliato le potenze occidentali ed i loro consulenti accademici? Molte pagine sono state scritte su questo tema, fin dalla metà degli anni '90 quando il sogno della Caduta del Muro già cominciava ad appannarsi. Ad oggi credo si possa fare un bilancio molto sintetico e forse in parte condiviso degli errori commessi.
Il primo errore è stato pensare che la transizione potesse avvenire rapidamente e con minor danni utilizzando una “terapia d'urto” (shock therapy). L'idea propugnata da tanti economisti, in primis Jeffrey Sachs, era che un pacchetto strutturato di misure di privatizzazione, liberalizzazione, forte riduzione dell'intervento statale in economia, ed apertura commerciale verso l'estero avrebbe consentito al sistema economico di “mettere a posto i prezzi” (getting the prices right) e di dar vita in breve ad un'economia di mercato. Se fossero stati rimossi lacci e lacciuoli statali, si pensava, gli individui avrebbero agito liberamente secondo le logiche di mercato, garantendo automaticamente efficienza e stabilità al sistema. Vista con gli occhi di oggi queste idee possono sembrare ingenue o velleitarie, ma non sono poi così distanti da chi anche recentemente affermava che i mercati finanziari fossero in grado di autoregolarsi.
Il secondo errore è stato quello di non dare peso alle componenti extra-economiche. Quando i numeri della crisi demografica sono cominciati ad emergere, in tanti hanno pensato che non vi fosse un legame con la crisi economica in atto. Si è detto che l'incremento del tasso di mortalità fosse dovuto ad un trend storico risalente agli anni '80, si è affermato che la caduta della fertilità fosse dovuta all'indebolirsi dei valori “tradizionali” presenti nella società comunista ed al diffondersi di una logica individualista più simile a quella occidentale. La realtà, dimostrata dagli studi dello World Institute for Development Economics Research (WIDER) delle Nazioni Unite nella seconda metà degli anni '90, è che la crisi demografica è stata determinata in gran parte dal peggioramento delle condizioni di vita e sanitarie di gran parte della popolazione, e dal vuoto di speranza che ha fatto seguito alla grande illusione iniziale.
Il capitalismo di mercato, lasciato dominare incontrastatamente nella sua versione più liberista su di una popolazione inerme, ha fallito il suo obiettivo storico di fornire crescita economica e benessere diffuso. La lezione della transizione, allora, è che un sistema economico non può fondarsi semplicemente sulla libera azione degli individui volta a massimizzare il proprio benessere individuale. I “fallimenti del mercato” sono pervasivi e lo Stato è chiamato a favorire la crescita con opportune politiche economiche, migliorare l'allocazione delle risorse, e garantire un sostegno a coloro che sono colpiti avversamente dalla congiuntura.
Pare incredibile, ma questi errori sono alla base di tutte le crisi economiche che si sono susseguite da allora: in Asia, in Russia, in America Latina, ed infine a livello globale nel 2008.3 Il liberismo, almeno nella sua versione più ideologica e ristretta, è fallito fin dal 1989. Ed ancora sembriamo non averlo capito.
___________
1Henry Anatole Grunwald su Fortune Magazine, 7 maggio 1990. L'articolo è disponibile in inglese su http://money.cnn.com/magazines/fortune/fortune_archive/1990/05/07/73482/index.htm .
2Queste riflessioni devono molto al lavoro di G.A. Cornia e V. Popov, raccolto nel volume “Transition and Institutions”, Oxford University Press, 2001. Sugli indicatori non-economici, si veda invece G.A. Cornia e R. Paniccià: “The Mortality Crisis in Transitional Economies”, OUP, 2000.
3Il filo di politica economica che tiene insieme tutte le crisi degli ultimi venti anni è ben delineato da Paul Krugman nel suo “The return of depression economics”, Norton paperbacks, 2000.