Al Festival dell'Economia nessuno ricorda più il futuro
Pochi dati, perché ogni vecchio economista sa che “se li torturi abbastanza, i dati ti diranno quello che vuoi sapere”, e molte idee su come i territori debbano migliorare i capitali collettivi per lo sviluppo locale attraverso delle operazioni culturali in cui le risorse finanziarie non sono fondamentali. È questo lo spirito che ha guidato l'edizione 2009 del Festival dell'Economia di Trento con la presenza di tre Premi Nobel, decine di blasonati economisti stranieri e italiani, tanti operatori economici, ma soprattutto tante famiglie con la bramosia di capire che cosa è successo e che cosa si può fare per vivere meglio nella rete globale. Purtroppo nella realtà quotidiana prevale la logica dello “strapaese”, di uno Stato che tutto prevede e tutto controlla, ma questa crisi economica ci ha insegnato che anche nella globalizzazione un Sindaco che dà un po' si soldi ai Confidi (per agevolare le imprese all'accesso ai finanziamenti) o alla modernizzazione delle infrastrutture materiali (sfruttando i cittadini in mobilità e arginando la disoccupazione) è molto spesso più importante dell'attività di vigilanza sulle banche.
Questa crisi ha anche acuito l'importanza della partecipazione e dell'interessamento dei cittadini rispetto alle scelte economiche operate sul territorio che abitano. Questo atteggiamento dovrebbe essere la priorità per ogni persona responsabile, eppure in molti territori dello stivale prevale ancora troppo l'idea che si può partecipare alle scelte solo se si ha un partito alle spalle, o quella che vede sempre più difficile poter concretamente cambiare le cose di fronte a un teatro politico spesso statico e non capace di compiere le scelte nel medio lungo termine. Ci si aspettava dei mea culpa o delle difese a oltranza e, invece, nelle vie di Trento hanno regnato da un lato la consapevolezza che viviamo in un sistema capitalistico in cui le crisi non sono più degli eventi eccezionali – i processi di globalizzazione e di smaterializzazione costituiscono la benzina che alimenta il boom e prepara uno sboom – dall'altro la precisa responsabilità di non piangersi addosso e agguerrirsi sui piantatori di erbacce tra i semi perché volendo sradicare le erbacce a volte si finisce per strappare anche il grano buono.
Se fino ad oggi le analisi degli economisti sono parse un po' troppo sbiadite all'opinione pubblica – tuttavia è lo stesso Premio Nobel George Arthur Akerlof (University of California, Berkeley), classe 1940, a ricordarci come “alcuni di noi economisti avevano visto arrivare la crisi e ne conoscevano le ragioni, ma non c'è stato mai alcun forum o spazio pubblico dove poter presentare questi punti di vista” – oggi è del tutto evidente che stiamo attraversando soltanto una delle tre crisi prospettate: la prima, quella di domanda da affrontare nell'immediato, è dovuta al fatto che in un'economia globalizzata con gli organismi internazionali fermi al 1944 l'interdipendenza non governata fa sì che in tutto il mondo qualcuno avrà sempre l'interesse e lo spazio per passare il “cerino acceso” ad un altro (la banca al risparmiatore, l'impresa al fornitore, etc); la seconda, quella da competitività da affrontare entro dieci anni, fa riferimenti agli auspicati ma trascurati apprendimenti necessari nel mondo dell'industria e del terziario avanzato per riposizionarsi sui mercati ad un gradino superiore a quello dei Paesi emergenti – Alberto Alesina (Harvard University), classe 1957, si dice convinto che “alla fine di tutto saremo identici a prima, forse più poveri, ma per poco”; infine, la terza crisi, quella da insostenibilità da affrontare entro cinquant'anni, è quella che origina dalla mancanza di politiche per reintegrare l'ecosistema di ciò che abbiamo consumato, per frenare lo scoppio delle povertà relative senza bloccare il percorso di crescita (Jean Paul Fitoussi, Luiss di Roma) e per costruire un buon vicinato con gli stranieri integrandoli nei valori (James Heckman, University of Chicago). Per affrontare tutte queste crisi, senza confonderle, il messaggio che arriva da Trento è chiaro: il capitalismo è un sistema instabile dove le crisi non sono eccezionali, non serve tentare di fare a gara nel ricordarsi il futuro, piuttosto interpretare il passato e il presente può servire a costruire delle reti stabili di solidarietà, industria e protezione.