Tabula rasa
Il gioco del Go, al quale ho giocato solo una volta in vita mia con un amico cinese, insegna che per vincere bisogna circondare l'avversario che viene catturato quando perde gli occhi. Gli occhi sono sinonimo di libertà.
L'illustrazione delle strategie del gioco riflette una visione del mondo e del modo di comportarsi nella vita. A differenza degli scacchi che prevedono due schieramenti contrapposti che si fronteggiano, nel Go non vi è una disposizione iniziale dei pezzi ma solo una tavola bianca.
Nel 1994 la discesa in campo di Silvio Berlusconi trovava di fronte a sé una tavola della politica rasa al suolo dalla distruzione dei partiti storici, operata dalla magistratura e infiocchettata dall'effetto dei media sull'opinione pubblica. Schierata come una gioiosa e rabberciata macchina da guerra, a fronteggiarla si trovava la sinistra post-comunista che, sconfitta dalla storia, stava per giungere al Governo grazie a un'operazione di piccolo cabotaggio. Come se il crollo del Muro di Berlino avesse seppellito gli errori e le sconfitte subite negli anni '80 per mano del PSI di Craxi, i Progressisti di Occhetto ritenevano di poter rappresentare le ragione dei socialisti che, stanchi del patto di potere con la destra democristiana, avessero deciso di rivolgere lo sguardo a sinistra per concludere in bellezza il percorso craxiano inaugurando la stagione dell'alternativa.
L'errore era che la politica più che agli scacchi, dove la seppur ridotta ma ancora numerosa militanza ex comunista avrebbe forse potuto trasformarsi appunto in macchina da guerra, assomigliava al Go, dove tutte le pedine ormai cieche erano cadute catturate e avevano lasciato lo spazio a una nuova tabula rasa. Ed ecco che a fronte della discesa in campo di Silvio Berlusconi la risposta scacchistica si è rivolta fuori bersaglio: con il suo decisivo colpo di grazia a una rappresentanza autonoma dei socialisti ha potuto conquistarne i prigionieri e aprire un nuovo campo di gioco.
Durante gli anni del suo secondo governo, tra il 2001 e il 2006, il tratto principale di quell'Italia erano le infinite e cocenti sconfitte dell'Inter, i cui sostenitori godevano ormai dell'affetto di tutti gli italiani 'buonisti' e rattristati per lo spreco dei soldi dal povero Moratti, paladino dei truffati da un sistema corrotto. L'Inter ormai era diventata simbolo di una sinistra snob e rappresentata da simpatici personaggi dello spettacolo e dei salotti televisivi. L'attesa della sua vittoria stava assumendo un valore messianico, quasi rivoluzionario, come che un evento del genere avesse potuto cambiare il mondo. Che invece si è riproposto sempre uguale a prima, assestando il colpo di grazia alle velleità del piccolo cabotaggio degli oppositori del berlusconismo.
La crisi di Calciopoli, l'ultima versione del giustizialismo all'italiana, lungi dall'essere purificatrice diventa così l'ultimo passo verso la consacrazione di Re Silvio che aveva trovato nella Juve nel 1996 e nell'Inter dopo due rivali.
La purezza dell'Inter dei buoni e sconfitti si trasforma nell'opacità delle intercettazioni telefoniche, della sottrazione del campione Ibrahimovic al bianconero retrocesso, della vittoria fondata sull'eliminazione del rivale per via giudiziaria: in mezzo a questi dubbi, durante gli anni di Prodi, i nerazzurri vincono tutto sul panorama nazionale. La verità che emerge chiara e lampante è che un altro mondo non è possibile.
È sufficiente questo, oltre a qualche dichiarazione di stima verso i cugini contro i rivali torinesi, a sancire la superiorità di Milano Capitale. La Milano che comanda, la Milano che vince.
Mentre in sottofondo si dissolvono Prodi e le sue velleità del Partito Democratico, in Italia non rimane niente più che un'altra tabula rasa dove il calcio – così come tutti gli ambiti dove gli interessi non coincidenti a quelli del Silvio nazionale potessero affrontarlo – sono tornati a essere solo uno dei luoghi verso i quali si affaccia l'Era del Popolo della Libertà.
O forse no?
L'illustrazione delle strategie del gioco riflette una visione del mondo e del modo di comportarsi nella vita. A differenza degli scacchi che prevedono due schieramenti contrapposti che si fronteggiano, nel Go non vi è una disposizione iniziale dei pezzi ma solo una tavola bianca.
Nel 1994 la discesa in campo di Silvio Berlusconi trovava di fronte a sé una tavola della politica rasa al suolo dalla distruzione dei partiti storici, operata dalla magistratura e infiocchettata dall'effetto dei media sull'opinione pubblica. Schierata come una gioiosa e rabberciata macchina da guerra, a fronteggiarla si trovava la sinistra post-comunista che, sconfitta dalla storia, stava per giungere al Governo grazie a un'operazione di piccolo cabotaggio. Come se il crollo del Muro di Berlino avesse seppellito gli errori e le sconfitte subite negli anni '80 per mano del PSI di Craxi, i Progressisti di Occhetto ritenevano di poter rappresentare le ragione dei socialisti che, stanchi del patto di potere con la destra democristiana, avessero deciso di rivolgere lo sguardo a sinistra per concludere in bellezza il percorso craxiano inaugurando la stagione dell'alternativa.
L'errore era che la politica più che agli scacchi, dove la seppur ridotta ma ancora numerosa militanza ex comunista avrebbe forse potuto trasformarsi appunto in macchina da guerra, assomigliava al Go, dove tutte le pedine ormai cieche erano cadute catturate e avevano lasciato lo spazio a una nuova tabula rasa. Ed ecco che a fronte della discesa in campo di Silvio Berlusconi la risposta scacchistica si è rivolta fuori bersaglio: con il suo decisivo colpo di grazia a una rappresentanza autonoma dei socialisti ha potuto conquistarne i prigionieri e aprire un nuovo campo di gioco.
Durante gli anni del suo secondo governo, tra il 2001 e il 2006, il tratto principale di quell'Italia erano le infinite e cocenti sconfitte dell'Inter, i cui sostenitori godevano ormai dell'affetto di tutti gli italiani 'buonisti' e rattristati per lo spreco dei soldi dal povero Moratti, paladino dei truffati da un sistema corrotto. L'Inter ormai era diventata simbolo di una sinistra snob e rappresentata da simpatici personaggi dello spettacolo e dei salotti televisivi. L'attesa della sua vittoria stava assumendo un valore messianico, quasi rivoluzionario, come che un evento del genere avesse potuto cambiare il mondo. Che invece si è riproposto sempre uguale a prima, assestando il colpo di grazia alle velleità del piccolo cabotaggio degli oppositori del berlusconismo.
La crisi di Calciopoli, l'ultima versione del giustizialismo all'italiana, lungi dall'essere purificatrice diventa così l'ultimo passo verso la consacrazione di Re Silvio che aveva trovato nella Juve nel 1996 e nell'Inter dopo due rivali.
La purezza dell'Inter dei buoni e sconfitti si trasforma nell'opacità delle intercettazioni telefoniche, della sottrazione del campione Ibrahimovic al bianconero retrocesso, della vittoria fondata sull'eliminazione del rivale per via giudiziaria: in mezzo a questi dubbi, durante gli anni di Prodi, i nerazzurri vincono tutto sul panorama nazionale. La verità che emerge chiara e lampante è che un altro mondo non è possibile.
È sufficiente questo, oltre a qualche dichiarazione di stima verso i cugini contro i rivali torinesi, a sancire la superiorità di Milano Capitale. La Milano che comanda, la Milano che vince.
Mentre in sottofondo si dissolvono Prodi e le sue velleità del Partito Democratico, in Italia non rimane niente più che un'altra tabula rasa dove il calcio – così come tutti gli ambiti dove gli interessi non coincidenti a quelli del Silvio nazionale potessero affrontarlo – sono tornati a essere solo uno dei luoghi verso i quali si affaccia l'Era del Popolo della Libertà.
O forse no?