Una Pace terrificante – da storia di un impiegato alla domenica delle salme – Mutenye
Racconta un cronista dell'epoca che una sera, a Genova, in un locale dove era presente tutta la «Liguria-bene», alla fine del concerto chiesero a Fabrizio De Andrè il bis. Lui, che era visibilmente incazzato, sibilò La canzone del maggio, “anche se avete chiuso/le vostre porte sul nostro muso/la notte che le pantere/vi mordevano il sedere/lasciandoci in buona fede/massacrare sul marciapiede/anche se ora ve ne fregate/voi quella notte, voi c'eravate”, come se cercasse, inutilmente, di irritarli. Poi scese dal palco, uno di quei figli di papà gli venne incontro per congratularsi e lui gli sparò in faccia: «L'unica cosa di cui sono orgoglioso, è di averti rapinato trentamila lire».
Cito questo episodio perché Storia di un impiegato è qualcosa di più che l'unico album «politico» di De Andrè. Attraverso un testo incisivo e schietto ed una musica coinvolgente, scatena in chi lo ascolta una rabbia verso il potere costituito ed il suo solido e infallibile modo di perpetuarsi, indifferente alle ingiustizie che esso consapevolmente provoca, che lo rende unico nel suo genere.
Questo concept album, pubblicato nel 1973, scritto con Giuseppe Bentivoglio e composto insieme a Nicola Piovani, tratta di un impiegato che, sull'onda d'urto del maggio francese, si sente colpire dal pungiglione rivoluzionario e programma di assestare una sciabolata mortale al sistema. Sogna così di gettare una bomba nel bel mezzo di un ballo mascherato cui, oltre ai suoi genitori, partecipano tutti i simboli del potere borghese e clericale, e della sua cultura. Ma un giudice lo informa che quella strage ha fatto il gioco proprio del potere, che di tanto in tanto ha bisogno di liberarsi dei suoi strumenti arcaici per trovarne di più aggiornati. E allora l'impiegato si fabbrica una bomba e la scaglia contro un'edicola di giornali. Finisce in galera e qui scopre, in mezzo agli altri carcerati, una coscienza collettiva che è un modo di «ripetere la stessa posizione di lotta», scrisse in copertina il produttore Roberto Dané, «ma questa volta con la coscienza di appartenere alla stessa classe di sfruttati».
L'album ebbe successo ma suscitò polemiche sia da destra, da parte di chi lo giudicò troppo di parte, sia dai burocrati della sinistra ufficiale, sempre pronti ad appiccicare etichette di qualunquismo. In realtà chi avrebbe dovuto farsi venire la pelle d'oca, sentendosi messo a nudo così bene, rimase tranquillo, barcamenandosi proprio come era solito fare l'impiegato protagonista dell'album prima dell'illuminazione e dell'esito violento della vicenda.
De Andrè sfuggiva alle critiche, era estraneo ai «giochi della politica», era legato ad una concezione di questa come arte e scienza del convivere, tra individui, in una comunità: mai come ricerca del potere, imposizione di un'etica irrogata dall'alto, tecnica della sopraffazione. E certamente suo scopo non era cercare di imporre il suo pensiero: «Non ho mai cercato di coinvolgere i miei compagni con le mie idee, le mie letture… il popolo quando gli parli di politica, a meno che non sia politicizzato nelle fabbriche, ti manda a fare in culo e quindi io non avevo nessuna intenzione di farmici mandare…».
Ad ogni modo qui non si vuole dare un'autentica interpretazione di Storia di un impiegato. Con l'ascolto di pezzi come La canzone del maggio vogliamo porre l'accento sull'illuminazione che scuote la coscienza dell'impiegato. Il sogno numero due, il cui testo risulta di una attualità disarmante, sposta la luce sull'azione individuale che finisce per fare il gioco del potere stesso e risulta poi goffa e fallimentare (Il bombarolo). Il passaggio da una mentalità «individualista» ad una «collettivista» avviene in carcere (Nella mia ora di libertà), dove, «per la prima volta in bocca al personaggio, l'io passa al noi mentre si prepara una nuova rivolta o sta continuando la stessa della Canzone del maggio».
E non si poteva, accennando a tale filone del pensiero di De Andrè, non ricordare il suo essere anarchico, che poi «non è un catechismo o un decalogo, tanto meno un dogma, ma è uno stato d'animo, una categoria dello spirito».
Siamo cauti. Lungi da noi immergerci in una spiegazione delle idee politiche di De Andrè. Abbiamo così scelto alcune citazioni soprattutto da interviste sue ma anche dei suoi ispiratori (Brassens) o persone a lui particolarmente vicine (Pagani), evitando di viziare il percorso con «intrusioni» personali e facendo ascoltare anche una sorta di sfottò contro ogni retorica «martiriologica» (Morire per delle idee).
La decisione di chiudere il cerchio con La domenica delle salme, scritta da De Andrè quasi venti anni dopo, può sembrare quanto meno bizzarra. Invero secondo noi la pace terrificante espressa da questa canzone è il seguito all'azione individuale e poi collettiva più vicino alla realtà. E' «l'indecenza della non rabbia, della non bestemmia, della rassegnata assuefazione» di fronte all'indecenza, allo stesso modo evidente, del regime. Le nuvole, l'album dal quale è tratta la canzone, è venuto fuori, per bocca dello stesso De Andrè, «più duro e più teso degli altri». Il motivo è lo specchio della realtà odierna: «Forse era la rabbia per questo mondo senza più rabbia, perché fino a dodici, quindici anni fa sentivi ancora circolare una voglia di protesta, oggi la risposta della gente a chi ci opprime è che ognuno si fa i fatti suoi, nei limiti in cui il potere glielo consente».
La domenica delle salme è una satira che diventa un incubo gelido e desolato, l'ombra grigia della normalizzazione si stende come un sudario su un popolo, appunto, senza più rabbia, in una «pace terrificante» raccontata tra «pacatezza sarcastica, lucida follia e furore profetico».
Così, citando Cesare Romana, suo caro amico, mentre i «mercanti di saponette guardano ai mercati dell'Est non più socialista e neoconsumista, schiavi ex comunisti ricostruiscono la piramide di Cheope-Berlusconi nelle città presidiate dai gas delle tivù». Passando attraverso l'ingiustizia subita da «Renato Curcio il carbonaro» e al «ministro dei temporali» che annuncia il trionfo della democrazia «con la tovaglia sulle mani e le mani sui coglioni» si giunge agli addetti alla nostalgia, incaricati di accompagnare all'estremo riposo, «tra i flauti, il cadavere d'Utopia». E in quella pace terrificante un coro di cicale esprime l'unica protesta ormai possibile da parte di un popolo addormentato.
È un finale amaro, ci sentiamo anche noi scossi da un percorso prima vivo, furente, pieno di speranza e poi finito in una silenziosa rassegnazione. Ma se in tanti continuiamo a provare certe sensazioni ascoltando le parole di De Andrè, vuol dire che ancora, dentro, siamo vivi.
«Il fatto che le mie canzoni procurino questo tipo di emozione, di disagio, implica, secondo me, che c'è in giro tanta gente incazzata, disgustata per come vanno queste cose. Chi non prova questo disagio stia attento, perché la corda può essere tirata sino ad un certo punto… Le canzoni entrano a far parte del patrimonio culturale di un popolo, sono parte della coscienza, se non altro a livello subliminale, dunque possono essere un buon deterrente. E' questa la loro importanza».