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Scritto da nel Internazionale, Numero 44 - 1 Agosto 2008 | 0 commenti

Politiche dell'immigrazione in Europa: di che cosa parliamo?

Senza dubbio l'immigrazione sarà uno dei temi oggetto di maggiore studio – e conflitto – nei prossimi decenni. Non perché sia un fenomeno nuovo, ma perché il suo impatto e soprattutto le sue cause implicano riflessioni di ben ampia portata sulle dinamiche economiche, sociali e politiche a livello globale. Senza perdersi in banalità terzomondiste, è evidente che il libero movimento di ingenti masse di persone, anche quando considerate come mero fattore produttivo – lavoro -, non può essere considerato alla stregua degli scambi di merci o di capitali, peraltro anch'essi non proprio senza conseguenze per gli equilibri locali.

Capita che le persone abbiano bisogni materiali ed immateriali da soddisfare. Capita che qualunque immigrato abbia una famiglia da mantenere e proteggere, che abbia dei problemi di salute da curare, delle capacità lavorative in campi professionali soggetti agli andamenti ciclici dell'economia locale. Capita anche che abbia dei bisogni culturali – religiosi, linguistici così come comportamentali – non di immediato adattamento per la società ricevente. Se la matematica non è un'opinione, i numeri, le quantità acuiscono i problemi.

Sarebbe anche piuttosto limitante circoscrivere l'immigrazione ad una questione meramente europea. Basta vedere la reazione dei Sudafricani negli scorsi mesi all'ingente influsso di rifugiati dallo Zimbabwe. E' interessante scoprire gli enormi conflitti interni suscitati dalle comunità palestinesi in Libano, in Siria, in Egitto, dagli imponenti movimenti dei lavoratori egiziani in Arabia Saudita alla ricerca di lavori che i ricchi e viziati arabi non vogliono più fare. Per non parlare dell'accoglienza riservata dai Cinesi di fronte dell'afflusso di indonesiani, filippini o tailandesi. Quando le persone si muovono in massa, contano. Dovunque nel mondo.

Differiscono invece i modi in cui diverse aree del mondo cercano di risolvere i problemi. Non si può certo negare che l'Europa abbia assunto – nel complesso – atteggiamenti parecchio ondivaghi verso l'immigrazione. Cercando, da una parte, di sfruttare i benefici economici di manovalanza a basso prezzo per lavori ormai in disuso tra gli Europei, nonostante le drammatiche cifre della disoccupazione nel suo stesso seno. E contemplando solo troppo tardi le conseguenze sociali e politiche dell'attrazione dei Gastarbeiter nelle comunità locali, con lo sviluppo di quelle che in Germania sono state definite le società parallele degli immigrati, che solo sporadicamente – e forzatamente – si intersecano con la popolazione e le istituzioni tedesche.

Ma a fronte di politiche dell'integrazione di difficile elaborazione, per la complessità dei problemi sociali e la sensibilità politica agli umori dei cittadini, l'Unione Europea ha scelto – unica al mondo – una forte strategia di eliminazione alla radice delle cause dell'immigrazione forzata. Quella che nasce dai conflitti armati, dall'estrema povertà e sotto-sviluppo economico. L'UE è di gran lunga il più grande donatore di aiuti allo sviluppo ai Paesi in via di sviluppo, costruendo infrastrutture, finanziando progetti educativi, sociali e sviluppo della piccola impresa in loco. Promuove i diritti umani, civili, sociali e politici di fronte alle persistenti violazioni di culture spesso indifferenti alle violazioni degli stessi. Sostiene finanziariamente le strutture statali – pagando gli interi costi amministrativi degli Stati africani, caraibici e pacifici, cioè le ex-colonie, e non solo -, al fine di contenere le dinamiche esplosive all'interno dei Paesi più rivoltosi che il mondo conosca.

Commette anche dei grossi errori, come no? E' spesso interessata al radicamento di classi politiche amiche che risultano essere le peggiori canaglie nell'incassare gli aiuti senza poi muovere un dito. E' anche incoerente nel liberalizzare con una mano il commercio dei prodotti più marginali per la produzione dei Paesi in via di sviluppo, nonché per i propri mercati, e con l'altra proteggere in maniera a dir poco eccessiva i prodotti agricoli, gli unici per i quali esisterebbe un reale vantaggio comparato in economie scarsamente industrializzate. E' insensibile nel comprendere i risvolti umani per chi è già immigrato, dimenticando le storie dei propri migranti nel secolo scorso, i drammi dei ricongiungimenti familiare, dei permessi di permanenza e lavoro, delle umilianti ispezioni. E' letteralmente poco furba nel non garantire flessibilità di regole per l'immigrazione di lavoratori e studenti con elevate competenze professionali, punto certamente più forte nella pragmatica politica americana.

Tuttavia, gli Stati Europei hanno adottato nel tempo una visione di lungo periodo che manca non solo agli altri partner occidentali ma anche agli stessi Stati di provenienza. Questa politica da potenza civile è al momento l'unica vera alternativa all'imperialismo colonialista e paternalista passato. Del quale, per inciso, gli odierni cittadini europei stessi subiscono le conseguenze senza aver partecipato alla presa delle decisioni ai tempi. Chi è critico sia verso l'emigrazione libera sia verso l'immigrazione zero è pregato di avanzare proposte migliori, e poi provarle a mettere in pratica senza l'aiuto della bacchetta magica.

Dimenticando, poi, che i curiosi giochi del destino della storia trasformano rapidamente le vittime in carnefici, gli spavaldi vincenti dell'economia in accattoni di risorse primarie, i dispensatori di sicurezze in agnelli istericamente spaventati, e all'inverso. Flussi migratori e concetti di giustizia sono soggetti alle stesse dinamiche reversibili. Gli esempi di certo non mancano e la storia riserverà sorprese a chi ora si sente umiliato nel partire e domani quel Paese lo terrà in scacco. Allora la vergogna sarà forse più equamente ripartita.

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