Viaggio in America – seconda parte: noi e loro.
In barba alle costituzioni europee, che stentano sempre a concretizzarsi,
prendete un inglese, un tedesco, un italiano, un francese, un danese, un olandese,
un irlandese e uno svizzero; e sedeteli allo stesso tavolo, in un ostello a Miami.
Ci sarà sempre qualcosa che li accomuna, ovvero una condivisa consapevolezza: qui, la gente è matta. In Europa, persino nelle grandi capitali come Londra, si ha sempre l’impressione che le scelte siano limitate:
si può essere una persona di tipo A oppure B o C, o D o E.
Negli Stati Uniti, terra d’emigrazione europea ma anche latino americana,
di mezz’Africa qui trapiantata a forza, di Asia in via di radicamento e dalla riconosciuta influenza semita,
le combinazioni possibili sono innumerevoli, e il risultato saranno quindi persone – spesso ai nostri occhi personaggi
– di tipo QWERTY, o FWHPZ.
Così lo stallone da copertina fa amicizia con la vecchia signora venuta da Haiti;
i quasi-senzatetto, che si nutrono della buona influenza del Triangolo delle Bermuda,
praticano trucchi di lettura del pensiero in cambio di una sigaretta;
l’immigrato di seconda generazione ha aperto una pizzeria che ogni giorno gli frutta 50.000 dollari,
e le micro-gang sempre un pò malviste dalle forze dell’ordine cercano di farsi benvolere dai poliziotti
segnalando i delinquenti più molesti di loro.
Tutt’attorno, il paesaggio della Florida offre palme di cocco, sabbia bianca, l’oceano sempre caldo
e sempre illuminato dai lampi di temporali chissà dove;
donne dai seni giganti e dalle minigonne invisibili sfilano accanto ai loro compagni dai muscoli di gomma,
a bordo di automobili dalle dimensioni vergognosamente esagerate che passeggiano pigre rispettando ogni striscia pedonale
(cosicchè diventa possibile ammirarle con più calma).
Nei fast food le confezioni degli hamburger avvertono: “se fosse più grande, avrebbe un suo codice postale”;
nei nogozi di souvernirs, gli slip da donna recitano: “attenzione, non si lecca da sola”.
Noi turisti europei assistiamo sempre un po’ strabiliati alla fiera delle assurdità che,
per la nostra weltanschaung, resterà sempre l’America.
Ogni incontro nasconde una storia; ogni discussione termina con una battuta.
Il gusto per la commedia affascina ancora il nostro vecchio continente, così tanto più ricco, ma più triste.
I nostri pensieri sono ponderati; le nostre conversazioni orientate verso una funzione. I nostri socialismi, seppur rosa, tengono conto dei più deboli;
le nostre burocrazie mettono un freno, seppur tenue, ai privilegi dei più forti. Per questo parlo senza esitazione di continente più ricco:
con buona pace di quel 10% di Stati Uniti che arriva sui nostri teleschermi, il restante 90% resiste in un tenore di vita tanto basso da non potere essere eguagliato da alcun paese europeo.
Cosa tiene unita questa cozzaglia in caduta libera, questi spazi immensi e poveri, abitati da milioni di persone diverse per origini, etnia, religione, aspetto fisico, modelli di vita, credenze e valori?
Il libero commercio.
A Little Havana, la piccola città nella città capitale dell’immigrazione cubana a Miami,
un signore di ottantun’anni (che si vanta di fumare sigari da sessantacinque) ridacchia quando gli chiedo come mai ha scelto di vivere negli Stati Uniti.
“Ma tu lo sai cos’è il comunismo? No che non lo sai, tu sai solo quello che hai letto sui libri.
A parole è tutto semplice, nella realtà i ricchi sono poveri e i poveri sono ancora più poveri.
Non c’è niente per nessuno”, mi racconta in un vecchio circolo per anziani ispanici dove un cartello alla porta avverte che è vietato usare “mala palabras”,
togliersi la camicia e sputare per terra.
Così, parlando di libero commercio, mentre tre anni fa mi veniva chiesto se in Italia avessimo le strade o i cellulari,
oggi persino Italia vuol dire Euro, e le nostre carte di credito, che abusano generosamente del dollaro in saldo, non vengono più guardate con sospetto.
Come sono ingenui, questi americani! Come sono appena nati, come non hanno visto niente di quello che abbiamo vissuto noi, come devono ancora crescere,
maturare, capire, sperimentare le trappole delle “mani invisibili” e riuscire in qualche modo a venirne fuori!
Ma si dice anche che una personalità immatura sia quello che serve per restare eternamente giovani;
e allora penso, e dico davvero: cosa darei per poter invecchiare qui.
Ultima tappa: San Francisco…