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Scritto da nel Letteratura e Filosofia, Numero 35 - 16 Marzo 2008 | 0 commenti

un breve sguardo al cinema d'Antonioni

Michelangelo Antonioni è uno dei più significativi registi italiani del secondo dopoguerra, e allo stesso tempo uno dei più controversi. Volerne tracciare un profilo univoco sarebbe una pretesa mal posta e comunque improduttiva, dal momento che Antonioni ha voltato le spalle alle tendenze dominanti del cinema italiano ed europeo, per intraprendere una personale ricerca stilistica.

Tra gli anni 50 e 60, grazie al fiorire delle idee innovative seminate sui cahiers du cinema da personaggi del calibro di Andrè Bazin e Jean-Luc Godard, determinati registi s'imposero all'immaginario collettivo non più come i fautori di una generica formula d'intrattenimento, ma come i depositari di una vera e propria arte.

Il sistema delle belle arti, coniato con felice formula da Batteux nel 1747, con l'introduzione della fotografia, e poi del cinema, non aderiva più ad una realtà in continuo mutamento. Il film d'autore, dove l'aspetto culturale è preminente al meramente commerciale, trasvolando i confini geografici, iniziò ad imporsi servendosi delle proprie caratteristiche universali: una certa complessità di contenuti, uno spettatore in grado di ripercorrerne la ricchezza semantica, ed infine una continua ricerca finalizzata all'originalità espressiva.

Bergman, Fellini, Kurosawa ed ovviamente Antonioni, sono soltanto alcuni dei nomi fuoriusciti dalla mirabolante fucina cinematografica che caratterizzò gli anni d'oro del cinema d'autore, dopo il tramonto della breve, ma intensissima, parentesi neorealista.

L'ininterrotta ricerca stilistica di Antonioni, e la sua poietica spaziano da De Chirico per la rappresentazione filmica dei paesaggi urbani, a Joice con l'eliminazione della sintassi e la decostruzione del periodo, dall'esistenzialismo angoscioso di Camus e Sartre, a Falubert, dove lo stile diviene il vero oggetto dell'opera d'arte. Il rovesciamento di tale complessità sul mondo della borghesia, il soggetto privilegiato dal regista ferrarese, non sempre riesce comprensibile al pubblico e alla critica: non a caso, il lungometraggio l'avventura fu platealmente contestato alla presentazione, durante il festival di Cannes del 1960. Inoltre, il nesso causale, ovvero il rapporto di causa-effetto che nel cinema classico rappresenta il modello per rendere comprensibile al pubblico i motivi che determinano lo svolgimento dell'intreccio, nel cinema d'Antonioni si stempera fino all'apparente perdita di significato.

L'effetto d'insieme, alternativamente osannato e deprecato, che scaturisce in particolare dalla trilogia esistenziale dell'autore, ha spesso suggerito ad un pubblico inesperto, lo stesso giudizio espresso dal ragionier Fantozzi in merito al capolavoro di Ejzenštejn. La severità di tale giudizio, senz'altro eccessiva è da ridimensionare, anche se talvolta l'eccesso calligrafico e di manierismo dell'autore, ha messo a dura prova anche i critici più pazienti: dopo il prologo di dieci minuti senza dialoghi, con cui si chiude l'eclisse, il celeberrimo mi fanno male i capelli proferito da Monica Vitti nel successivo Deserto rosso, ha suonato veramente come un guanto di sfida…

Non a caso, ne il Sorpasso, l'indimenticabile borgataro impersonato da Vittorio Gassman, domandando al giovane e intellettuale Trintignant se avesse visto l'Eclisse, aggiungeva: Io c'ho dormito, una bella pennica… -e chiosava- Gran regista Antonioni…

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