Quando è arrivato in Italia, nove anni fa, eravamo in condizioni disastrose. Noi due umani, una coppia piucchettrentenne che cercava di uscire da un periodo duro guardando avanti; e Pico, un cane che forse comprendeva di uscire da un canile, ma non sapeva dove andava. Arrivò in Pianura Padana con una zampa fasciata, così stanco per il viaggio che si addormentò sulle gambe di Irene appena salito in macchina, e dormì fino a casa, di là dall’Appennino. Durante le prime settimane fu tutto commovente: la sua pazienza durante le medicazioni alla ferita operata e il lento abituarsi a poter camminare poggiando quattro zampe invece che tre, il suo spaesamento nei profumi della cucina ancor prima del suo amore per la morbidezza del divano, il suo grande rispetto della nostra camera da letto e i suoi pianti disperati all’allontanarsi di uno di noi. Il primo osso, la prima ricerca di coccole, i primi morsetti, la prima doccia insieme (non ha così tanta paura dell’acqua, se adeguatamente spronato!). E poi, soprattutto, la prima corsa all’area cani: slacciato il guinzaglio ci ha guardato, si è guardato intorno e via come un razzo! Una corsa sfrenata di venti minuti, senza mai fermarsi. Calzino di gomma sfasciato, fasciatura distrutta, una poltiglia di sangue e fango sulla zampa infortunata… e lui felice di correre per gioco, come forse non aveva mai potuto fare.
All’arrivo pesava intorno a 18 chili e soffriva di disturbi intestinali; mangiava voracemente e beveva con ansia, come se l’acqua fresca gli fosse mancata troppo a lungo (ancora oggi ama dissetarsi al palmo della mano in quella grande ciotola di ceramica che è il bidet), e non riuscivamo a farlo ingrassare. Evidentemente non era ancora tranquillo, non era sicuro o pensava di non potersi fidare del tutto, e questo lo stressava; nei primi due o tre mesi la forfora non diminuiva e il pelo non accennava a illuminarsi. Ci stavamo prendendo le misure; ho capito che lui voleva conoscere noi prima di aprirsi a sua volta, e che ne aveva diritto: adottarlo è stata una nostra scelta, e presto s’impara che in una situazione del genere il pricipale aspetto da tutelare, subito dopo quello medico, è quello caratteriale.
Oggi Pico pesa 30 chili a tenersi stretti, tanto che il veterinario dice scherzando che si tratta del primo levriero grasso con cui ha a che fare in quarant’anni di carriera. “Ma è un bel cane semmai”, dice Anacleto. Ha un manto di lucentezza straordinaria ed è consapevole di una raggiunta tranquillezza e della possibilità di fare il serio o il cretino come e quando vuole. Intelligente al punto da saper sfruttare con furbizia velocità e destrezza (gira le chiavi nelle toppe delle porte), attento alle sensazioni degli umani (in particolare della sua sorellina bipede, che ha ampliato il branco quasi sette anni fa) e felicemente affezionato a noi. Fu zelante negli adempimenti quotidiani – Irene gli avevaa pazientemente insegnato a non inacidire il pratino verde di sua madre, così lui per un periodo fece pipì solo sul vialetto selciato… salvo accorgersi che avrebbe ricevuto affetto in ogni caso, e così ora il pratino non c’è più – e perfino ubbidiente se reputa che le richieste siano ragionevoli. Quando camminiamo ci sta alle spalle, ogni cinque passi dando una nasata sul sedere per ristabilire il contatto di cordata nel branco familiare. Lancia la coda in ampi giri d’elica giocando con la palla o con le papere di gomma (quelle da doccia che sono souvenir del British Museum, a forma di sfinge e di personaggi storici, sono le sue preferite), gestisce i suoi peluche disponendoli in fila o portandoli al sole, passa quarti d’ora col muso nella siepe in cerca di lucertole. Se gli prendono i cinque minuti di matto corre alla Beep Beep fino allo sfinimento oppure cerca di rompere le scatole a Miciopàppa, il gatto diciottenne di Irene, non più lesto per scappare ma abbastanza esperto da terrorizzarlo con sonore soffiate e luciferini miagolii.
Pico è il primo nostro cane; il secondo cane per Irene, il quarto per me. Non so se abbiamo dato di più noi a lui o viceversa, ma so che l’esperienza con questo cane rescued mi ha arricchito. Non è il mio primo cane salvato (la Musa si era presentata al cancello di casa, Ringhio era nel bagagliaio di una Ford Ka; solo Gunther era un cucciolo nato nella bambagia) ma è stata una condivisione diversa e nuova, che non posso spiegare se non con una similitudine. È difficile veder sbocciare un fiore: gli si può piazzare davanti una telecamera, registrare e poi ammirare in fast motion il bocciolo che si schiude e i petali che si distendono. La differenza fra la gioia di Pico e degli altri cani che ho avuto sta in questo: l’ho visto sbocciare come un fiore, curandolo e aspettando con mitezza che il tempo passasse e le cose cambiassero. Mettere tutto ciò insieme alla crescita di una bimba aiuta a crescere lei e noi. E se questo non è imparare, non so cos’altro posso aver imparato.
10 marzo 2024