Con animo grato
Da qualche parte in America è la festa dell’indipendenza, e ci interroghiamo sul valore di questa parola. Perché se indipendenza è innanzitutto umanismo, tutelare la vita dovrebbe essere un impulso primordiale presente in ogni essere vivente. Non solo la propria, ma anche quella di chi è vicino. Non ci vuole molto a immaginare come fosse importante in passato difendere i propri familiari e i membri della comunità a cui si apparteneva; dovremmo forse pensare che oggi è differente? No, non lo è. In ogni epoca la morte di una persona ha ripercussioni sull’economia di chi gli è vicino, e crea un dolore che forma, o talvolta distrugge, chi lo prova.
Così, tutelare la vita significa allontanare la morte. Oggi abbiamo mille esempi di come le nostre comunità non tutelino la vita. Non tuteliamo le vite dei senzatetto che crepano di freddo così come non tuteliamo le vite dei cittadini con tetto ma poco denaro che, schiacciati dai tempi d’attesa della sanità pubblica, non accedono in tempo alle cure necessarie. Non tuteliamo le vite degli scolari di città, che corrono a lezione aprendo i polmoni a un’aria irrespirabile, così come non tuteliamo le vite dei raccoglitori di frutta, novelli schiavi di un sistema malato della grande distribuzione. Non tuteliamo le vite di coloro che vengono oppressi, bombardati, costretti a fuggire a rischio della vita per rischiare un po’ meno la vita; e non tuteliamo le vite di chi è nato e lasciato alle sofferenze, né di chi potrebbe nascere, ma non gli è consentito. In questo ciacciare di diritti e doveri, di famiglia tradizionale e di disegno divino, pochi pensano a tutelare le vite di chi ci sarà quando noi saremo defunti. C’è chi difende il diritto ad avere figli anche se non si può – indipendentemente dalla ragione e dal fatto che si tratti di donne e uomini di ogni età e preferenza sessuale – e al contempo tollera l’aborto, e c’è chi reputa inconcepibile l’aborto a ogni stadio della gravidanza e al contempo non accetta che una donna offra il suo utero o che un uomo doni il suo seme per far sì che una nuova vita gioisca dei momenti lieti dell’esistenza e contribuisca alla gioia di una persona o di un nucleo familiare.
Senza andare ai dettagli dei punti di vista, che logorano ogni conversazione nel momento in cui il suo perno è un diritto, m’interessa far notare come un’espressione in uso in ambito giuridico possa venirci incontro. Quando si riceve una donazione, l’atto prevede che si tratti di un beneficio che si riceve – il notaio scrive proprio così – con animo grato. Io sono certo del fatto che un senzatetto riceva una coperta con animo grato, che un cittadino squattrinato accetti un appuntamento a stretto giro per una visita medica con animo grato, che un ragazzino sia portato a correre in un prato o su una spiaggia con animo grato, che un uomo torni a essere libero in un paese pacifico dove può scegliere di vivere con animo grato, che un bambino sia accudito affettuosamente con animo grato.
Non so se, né come, un essere umano che ancora non è nato possa giungere alla vita con animo grato. Jean-Paul Sartre scrisse che “l’uomo è condannato ad essere libero: condannato perché non si è creato da sé e tuttavia libero, perché una volta gettato nel mondo è responsabile di tutto ciò che fa”. Se ciò è vero, e io credo che lo sia, la sessualità dei genitori a cui un bimbo è affidato non influisce minimamente sulle garanzie e sugli strumenti che gli si devono offrire: crescere nel corpo e nella mente con l’amore e il cibo, l’educazione e la sanità, le premure e il gioco, l’igiene e il civismo. Tanto serve a tutelare almeno una vita; tanto serve a donare la libertà. Spetta alla persona che sarà accettarla con animo grato.
4 luglio 2022