L’Europa agli europeisti
Sono molte in tutto il mondo le istanze di indipendentismo. Palestinesi e curdi guidano una lunga lista in cui non mancano paesi della fu Unione Sovietica, ma basti pensare a realtà come il Tibet o al Sahara Occidentale per rendersi conto di come questo genere di aspirazione sia planetaria.
Anche in Europa questo vento soffia forte: dal referendum scozzese fallito per poco alle vicende catalane (di cui ho già scritto recentemente e in più occasioni), dalle storiche rivendicazioni basche all’assunzione di nuove competenze territoriali da parte dell’esecutivo corso sentiamo parlare sempre più spesso di una spinta all’autonomia che coinvolge movimenti davvero popolari.
Ora, tenga presente il lettore che alla base di questa riflessione c’è sempre un concetto che esprime chiaramente i riferimenti culturali a cui vorrei che ci legassimo: nostra patria è il mondo intero. Lungi da me gioire di rigurgiti regionalistici, e del resto ritengo che quando la spinta all’indipendenza avvenga senza valide ragioni culturali, storiche e geografiche non faccia che scimmiottare i destrorsi che si riempiono la bocca di parole spesso vuote di significato come nazione o, per l’appunto, patria.
Ecco però che si giunge a una domanda di fondamentale importanza: come si arriva a fare un’Europa che attragga e unisca i suoi cittadini invece che dividerli e lasciarli sempre più scettici sull’utilità di essa? Io auspico che l’unione del continente si perfezioni come primo passo di un’unione mondiale, chiaramente; ma ci sono alcuni passaggi ineludibili. Le libertà fondamentali non includono solo i diritti personali: è indispensabile umanizzare le istituzioni, e per farlo è necessario pensare in grande guardando al piccolo.
Dopo aver vissuto per venticinque anni in una metropoli, trasferirmi in un comune di diecimila abitanti mi ha mostrato come l’efficienza nel governo dei luoghi aumenti esponenzialmente quando l’area da amministrare è ridotta. Meno problemi e più velocità, minore possibilità di corrompere e maggiore interesse a offrire assistenza al vicino sono aspetti che concorrono a facilitare le cose e aumentare il livello di qualità della vita degli abitanti di un luogo. Guardare al piccolo significa gestire oculatamente l’amministrazione della burocrazia ma anche della sanità pubblica e dell’istruzione primaria, non nell’ottica di dividere un paese, un continente, un mondo che dovrà tendere a unirsi bensì con l’intento di semplificare e di farlo tutelando tradizioni e culture locali invece di rispondere a false sirene di sovranismi d’accatto di voti e di patriottismi basati su vuota ignoranza antropologica.
L’Europa non è un fine supremo ma il lunghissimo passaggio verso la composizione del pianeta unito nel nome dello spirito di solidarietà umana, e vediamo con tutta evidenza come gli stati nazionali non riescano a comporla. A tal proposito, scozzesi e catalani hanno dimostrato di essere molto più europeisti di britannici e spagnoli, sudditi di due corone imperniate sull’imperialismo da una parte e sulla violenza fascista dall’altra. Altro che grandi democrazie! La nuova Europa si farà forza delle piccole realtà, e quando la famigerata devolution sarà riconosciuta come opportunità per superare gli stati nazionali e formare una piena unione continentale avremo fatto mille passi avanti, alla faccia di chi chiama retrogradi i protagonisti delle richieste di autonomia territoriale.
Vogliamo guardare solo al di qua delle Alpi? Facciamolo: in fin dei conti, l’articolo 5 della Costituzione recita che la repubblica “adegua i principi ed i metodi della sua legislazione alle esigenze dell’autonomia e del decentramento”. E adeguiamoci, su.