Lettere dal Giappone – I cervi di Nara
Qualche anno fa, pensavo che nulla potesse essere più famelico delle scimmiette che scorrazzavano impunite tra le strade di Lopburi, in Tailandia. Questo prima di imbattermi nei cervi di Nara. I graziosi e placidi ungulati, che passeggiano liberi e docili nel parco cittadino, si trasformano infatti in spietati predatori nel momento in cui vedono che detieni i loro creckers preferiti e sei restio a darglieli. Considerati dalla mitologia come messaggeri divini, in quanto il Dio invitato all’inaugurazione del tempio giunse a dorso di un candido cerbiatto, i nipponici Mercurio non esitano un secondo a morsicarti il posteriore se non sei abbastanza svelto a nutrirli o a schivarli, dirottando le loro attenzioni magari sul vicino, anche lui in possesso dei famigerati biscottini. E così non è raro imbattersi in persone che tra balzelli e gridolini si liberano rapidamente del piccolo fardello acquistato in una delle baracchine normalmente presidiate dai guardinghi bambi. Ed è così che anche qui, poco lontano dai piedi della statua del Grande Budda, si può trovare uno dei temi che permeano il Sol Levante: la maestria del mascherare le qualità offensive con l’eleganza e l’armonia.
Un esempio forse più palese è il castello di Himeji, o dell’airone bianco. Una roccaforte candida circondata da giardini curatissimi, ma anche da mura costruite con una forma particolare appositamente studiata per renderne difficoltosa la scalata. Che, in effetti, risulta impegnativa anche all’interno, dove ripide scale lignee si inerpicano per quelli che, con la calura del mezzogiorno, sono sembrati mille piani. Chissà come facevano i samurai.
In ogni sito turistico, la quantità e la qualità delle informazioni fornite è elevatissima. Depliant, pannelli, volontari, passanti, tutti atti a rendere la tua esperienza la più completa e piacevole possibile. Le persone ti ringraziano per essere venuta a visitare il loro paese e con un sorriso ti chiedono da dove vieni. Gli scolari, addirittura, hanno come compito quello di intervistare gli stranieri e, in piccole comitive, ti circondano e ti chiedono timidamente “can we talk?”, per poi offrirti come ringraziamento degli origami accuratamente confezionati. Se non è questa la strada per sconfiggere la xenofobia, allora proprio non saprei.
Sembrano sempre tutti felici di vederti, dai commessi ai ferrovieri, dai ristoratori ai cassieri, un “irassshimaseeee” (benvenuto) non manca mai. Sempre accompagnato da un inchino.
Questa cosa di chinare il capo innumerevoli volte può sembrare inizialmente buffa. Vedere, per esempio, il controllore che, non solo non appena entrato nello scompartimento, saluta e si inclina, ma anche prima di uscirne, così come la signorina che vende spuntini, spingendo il suo carrello, può risultare divertente al principio. Ma basta abituarsi al rituale per coglierne la bellezza ed il significato: io porto rispetto per quello che faccio e per quello che sono. E lo esprimo non solo dando il mio meglio per me stesso, ma anche perché tu possa beneficiarne. Perché altrimenti non sarebbe il mio meglio.
Una lavoratrice italiana nella grande distribuzione, come me, ha tanto da imparare dall’armonia che si crea quando la gentilezza ha il sopravvento. Una lezione preziosa mi è stata data quando, alle nove e mezza di sera, stanca e sudata, ho raggiunto il piccolo hotel dove pensavamo di soggiornare e alla loro risposta “guardi che siamo chiusi”, mi sono prontamente inacidita ribattendo “guardi che ho una prenotazione”, sbandierando il mio cellulare, latore di verità conclamate, sotto al naso del receptionist. Una rapida occhiata del pacato signore al mio schermo e l’equivoco sembra chiarito. Il poverino, che parlava poco inglese, si illumina, scambia qualche parola con qualcuno sul retro, fa una telefonata, si infila le scarpe, ci fa cenno di seguirlo e saltando in macchina ci porta sorridente all’albergo giusto.
È anche vero che qui i clienti sono normalmente più educati, ma vi assicuro che percorrere la via commerciale la domenica pomeriggio dà la medesima sensazione di muoversi all’interno di un barattolo di melassa. La quantità di gente è impressionante. Eppure nessuno spintona, nessuno impreca, semplicemente si segue il flusso e si aspetta il momento giusto per infilarsi nel negozio prescelto.
L’impazienza pare non dimorare in queste isole.
Ma in me è grande e non vedo l’ora di conoscere questa terra meravigliosa ancora un po’.