“Les beaux jours d’Aranjuez” di Wim Wenders
Quale sia il limite che definisce e separa il cinema dal teatro, è una questione assai spinosa e mai come in questo film le distinzioni appaiono vuote e sfocate.
Sebbene Les beaux jours d’Aranjuez sia la trasposizione cinematografica della drammaturgia di Peter Handke, si tratta di un adattamento in cui la purezza del cinema viene rimarcata in ogni fotogramma e mai assoggettata alle regole del palcoscenico.
Il nuovo film di Wenders è un’opera dalla trama inconsistente tanto che si tratta sostanzialmente di una conversazione tra un uomo e una donna ed è il solo collocamento dei personaggi all’interno o all’esterno di un’abitazione a fare da imbastitura per un fitto e complicato lavoro sui dialoghi e nei movimenti di macchina.
Wenders muove il suo racconto-non-racconto in una casa che potrebbe essere ogni posto del mondo, in un tempo indefinito, dunque in un contesto totalmente estraneo a tradizionali concetti di spazio, di tempo e anche di forma. In questo modo tutta la storia manca di una struttura distinta e di consuetudini logiche e linguistiche che permettano di percepirla come veicolo di comunicazione: ciò che ne risulta è un’evidente mancanza di riferimenti.
L’inafferrabilità del film si palesa nell’espressione dei dialoghi. La conversazione si svolge a vuoto, le frasi iniziate rimangono sospese a mezz’aria per poi ricominciare subito dopo nello stesso punto o a metà di un altro argomento, come se si ripetesse continuamente lo stesso discorso indipendentemente dall’oggetto della trattazione. Le parole non comunicano ma diventano una texture sonora in cui le pause hanno più potere comunicativo del flusso verbale stesso e la sensazione conseguente è quella di rivivere lo stordimento di L’année dernière à Marienbad… “Les beaux jours de Marienbad” potremmo dire per traslazione, tanto è forte la vicinanza stilistica di questi due film; attesa, ripetizione e dissonanza fanno da denominatore comune, e non è un caso che lo stile visionario di Handke sia stato paragonato a quello di Robbe Grillet.
La continua attesa che qualcosa si compia, o si avveri, crea non solo una forte tensione emotiva, ma anche una dilatazione del film alla quale il regista contrappone un’assoluta purezza del linguaggio cinematografico.
Che cosa tiene lo spettatore di fronte a uno schermo dove nulla accade e non si comprende ciò che viene detto, se non un’ipnotica gestione della macchina da presa? Non ci sono altro che parole in libertà che si insinuano tra le fronde degli alberi, che pulsano e diventano vortice tra le siepi del giardino: un piccolo miracolo di regia che sfrutta movimenti di macchina dalla precisione millimetrica e cambi di inquadratura equilibrati e ben alternati. Di questa perfezione è fatta la sostanza del film.
Trama
Uno scrittore davanti alla macchina da scrivere, in pieno processo creativo; dalla finestra s’intravede un pergolato sotto il quale si manifestano un uomo e una donna. Attraverso il flusso creativo dell’autore, i due si confrontano su assoluti e dubbi esistenziali.
Crediti
Titolo: Les beaux jours d’Aranjuez / Regia: Wim Wenders / Interpreti: Reda Kateb, Sophie Semin, Jens Harzer, Nick Cave / Sceneggiatura: tratta da una drammaturgia di Peter Handke / Fotografia: Benoît Debie / Montaggio: Beatrice Babin / Produzione: Alfama Films, Neue Road Movies / Paese: Francia, Germania / Anno: 2016 / Durata: 97 minuti.
Film in concorso alla settantatreesima Mostra del Cinema di Venezia.