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Scritto da nel Numero 125 - 1 Dicembre 2015, Scienza | 0 commenti

La tutela paesaggistica dei popoli migranti

La tutela paesaggistica dei popoli migranti

In questi mesi si è avuta notizia della proposta, a firma Partito Democratico e governativa, di procedere ad un accorpamento delle Regioni italiane in 12 macroregioni. Una siffatta razionalizzazione territoriale avrebbe qualche logica vincente ma temo troverà gli stessi ostacoli, di campanile e di lobbies delle poltrone, di una precedente proposta che voleva ridurre i comuni italiani, forzando l’accorpamento di quelli con popolazione inferiore a 1.000 abitanti.

I comuni italiani al di sotto della soglia suddetta sono poco meno di duemila, rappresentando quindi ¼ del totale dei comuni ed essendo abitati da poco più di un milione di persone, ossia l’1.77% dell’intera popolazione. La situazione non è molto diversa nelle altre nazioni europee; ad esempio in Germania troviamo all’incirca cifre doppie rispetto alle nostre, che portano però ad un risultato similare, ossia nei comuni piccolissimi abita il 2,45% della popolazione teutonica. Questo a significare che lo spopolamento del territorio non urbano, frutto del boom industriale ed economico del secolo scorso, ha coinvolto e segnato tutte le principali nazioni.

L’algida statistica consente però di fare ragionamenti sociologici e ci evidenzia subito due fatti: uno consistente nella pervicacia con cui le popolazioni mondiali, specie occidentali, si concentrano in aree sotto un certo punto di vista più “comode” ma sostanzialmente più problematiche, quanto a qualità della vita e tempo libero (si pensi al traffico, all’inquinamento, alla fragilità delle interazioni sociali, ecc.). L’altro, che mi appare come l’uovo di Colombo, consistente nella necessità assoluta di recuperare gli spazi territoriali abbandonati per il tramite di quelle popolazioni migranti che spingono dal resto del mondo verso l’Occidente che invecchia e decresce.

Tornando per un attimo alle cifre, a spanne e in ordine sparso, su 60 milioni di italiani ben 6 milioni e mezzo abitano nelle prime 35 città della Pianura padana, luogo fertile e prosperoso ma ospitale come un pantano brulicante di zanzare, 3 milioni e 300 mila abitano a Roma e nelle altre prime 5 città del Lazio ed 1.800.000 abitano nelle prime 10 città campane, in quella fetta di territorio che è stata ribattezzata “terra dei fuochi”, per descriverne l’attitudine all’incenerimento “fai da te” dei rifiuti, nonché la consuetudine alle sparatorie fra bande in odore di camorra. Ciò significa che quasi un quinto della popolazione (più di 11 milioni) è concentrato nei principali comuni di queste 3 aree. Ed altre concentrazioni straordinarie di popolazione si registrano fra Lucca e Firenze, fra Foggia e Taranto, fra Reggio Calabria e Catania, incrementando ulteriormente quell’indice di spopolamento delle aree non urbane.

Immaginare di fare rivivere una nazione nella sua interezza, ridando linfa a quelle parti di essa che sono ormai preda solo della natura, mi pare operazione doverosa. Pensate ad un medico che si trovasse di fronte ad un essere in cui pulsano solo alcuni organi vitali, ad esempio cuore, reni, cervello e polmoni e dove non fossero però più presenti la circolazione sanguigna periferica, anziché il tessuto muscolare e articolare.

Al netto delle crociate salviniane quindi, un governo lungimirante, alle prese fra l’altro con il dissesto della vecchia economia manufatturiera, e che bene intendesse la strategicità dell’agricoltura di qualità, del turismo e della salvaguardia del patrimonio artistico, accoglierebbe con il tappeto rosso i migranti onesti e desiderosi di rimanere nella nostra nazione, al fine di renderli protagonisti attivi del ripopolamento e della rivitalizzazione dei territori abbandonati: dai borghi collinari e montani che vanno a morire, alle località marine in cui non si rinnova la tradizione della pesca e ai campi in cui è più ostico produrre, come i vecchi terrazzamenti alpini ed appenninici.

La presenza dell’uomo, laddove è stato presente per secoli, significa non solo recuperare un territorio alla economia nazionale ma salvaguardarlo nella sua integrità strutturale, impedendo il dissesto idrogeologico che causa sempre più lutti ad ogni impeto meteorologico. Significa permettere al turista straniero che, pur apprezzando gli skyline di Shanghai o di New York, non rimane indifferente alla vista di una nostrana Civita di Bagnoregio, o Manarola o Castelmezzano, di non trovarsi in luoghi fantasma, dove non vi sono più botteghe artigiane o esercizi commerciali e dove tutto pare fatiscente, dalle facciate dei muri deturpate, ai vicoli senza illuminazione, dalle stradine colme di immondizia ai campi prospicienti incolti, e odora di stantio, con i capannelli di persone indolenti che vivacchiano dentro e fuori i bar di paese.

Reinserire il popolo dei migranti, che desidera solo vivere lontano da guerre e carestie, nei tanti villaggi e borghi disseminati lungo lo stivale, alcuni di questi veri gioielli architettonici e paesaggistici, vorrebbe dire non solo risarcire costoro da millenni di predazione ma anche farne fautori di un nuovo stile di vita, di un “rinascimento” delle comunità rurali. Potrebbe impedire la chiusura di scuole, ospedali ed uffici che tanti sacrifici comporta in quella fetta minoritaria di popolazione italiana che ancora abita quelle aree. Potrebbe resuscitare vecchi mestieri; potrebbe incentivare la contrapposizione di un stile italiano alla massificazione delle merci; potrebbe incrementare l’export dei prodotti agricoli biologici e di qualità superiore.

L’utilizzo delle masse migranti in tale chiave potrebbe tornare a fare prevalere un’idea di decentramento come alternativa di vita possibile e non di ripiego, trasferendo anche cultura dal centro alla periferia. A fronte di una società statica come quella dei secoli scorsi, in cui per assistere all’opera si doveva andare a Parigi, Vienna o Milano, in cui per attingere al sapere occorreva “calare” nelle grandi città, in cui i centri minori sonnecchiavano nell’apatia e nel provincialismo, la società odierna si muove ad alta velocità, sia dal punto di vista concreto che dal punto di vista telematico, e dunque immaginare che l’intero tessuto territoriale di una nazione sia investito da eventi e fenomeni culturali che non marginalizzino luoghi e popolazione, non è pensiero azzardato. Ed anzi l’integrazione dal basso, dalle periferie non delle città ma dalle periferie della nazione, fra culture diverse, quella identitaria italica radicata nel territorio e quelle che apporterebbero popoli di diversa etnia, potrebbe risultare vincente per arricchire e trasformare il bagaglio culturale occidentale.

Tale integrazione, come spesso avviene nei microcosmi, avrebbe anche il vantaggio di minori costi a livello di conflittualità e microcriminalità. Responsabilizzare i migranti nella ricostruzione chirurgica di quel corpo-nazione che, dicevamo, vive solo in alcuni gangli, potrebbe eliminare molti dei fenomeni di frizione fra mondi diversi e di risposta violenta all’emarginazione. Così come assistere al rifiorire del proprio territorio d’origine e riconoscere il ruolo attivo dei nuovi abitanti potrebbe aprire l’orizzonte mentale degli autoctoni, i quali, a scanso di ipocrisie, sono tendenzialmente più chiusi ed impermeabili negli ambienti rurali che non nelle grandi città, anche se la paura e l’esplosione del conflitto sta invertendo già tale assioma.

Spulciando qua e là per l’Italia, un valente supporto alla teoria esposta deriva da alcune fattispecie di ospitalità verso i migranti in piccole realtà in via d’abbandono, le quali paradossalmente vedono per una volta la Calabria in prima fila, proprio quella regione che ha patito però anche i tristi fatti di Rosarno. E’ il caso di Riace, famoso oltre che per i bronzi, per essere stato uno dei primi comuni ad accettare il fenomeno migratorio nel proprio territorio, giungendo oggi a far convivere 400 stranieri su una popolazione complessiva di 2.100 persone, a fronte delle 1.600 unità che vi risiedevano quindici anni fa. Oppure di Gizzeria che vanta il 14% di popolazione straniera fra i propri residenti. O ancora di Acquaformosa, anch’esso comune che ha ratificato il progetto Sprar (sistema di protezione per richiedenti asilo e rifugiati) e che da qualche anno organizza un simbolico Festival delle Migrazioni, a suggello di questa politica dell’accoglienza.

Insomma piccolo può essere bello ma soprattutto può essere nuovo e multiforme, grazie alla mescolanza di sangue differente e alla voglia di chi sente meno stanchezza di noi nell’affrontare le sfide della vita.

Venendo alle previsioni meteorologiche non c’è molto da dire, anche perché il prossimo mese parrebbe riprodurre una sorta di ciclicità di inizio inverno, somigliando da vicino al mese passato, con la scontata differenza di avere temperature complessivamente più fredde dato l’avanzamento della stagione. Così come accadde a novembre, anche questo mese si apre con l’espansione imperiosa dell’anticiclone africano verso nord. E parimenti tale struttura dovrebbe reggere almeno sino alla metà del mese, oltre la quale non ha senso avventurarsi. Forse una blanda infiltrazione nuvolosa potrebbe interessare le regioni tirreniche a cavallo del ponte dell’Immacolata ma tutto in un contesto altopressorio. Quindi clima mite, specie di giorno, qualche temperature diurne decisamente sopra la media sui monti e al sud Italia. E nebbie e foschie basse ad imperversare in quelle aree di territorio dove, come detto sopra, la popolazione ama rintanarsi stretta stretta, quindi pianure del nord e del centro. Aumento degli inquinanti atmosferici e temperature che, ove il sole non avesse la meglio nemmeno sulle nebbie, rimarrebbero basse anche di giorno seppure su valori medi del periodo. Godrà chi si potrà permettere di “migrare”, da vacanziere però, verso Alpi, Appennini, isole o località costiere del centro-sud. Non sarà contento chi d’inverno migra solo in direzione delle località sciistiche perché anzi il previsto rialzo termico e il soleggiamento spazzeranno via quel poco di neve caduta a fine novembre.

Se il periodo natalizio vorrà poi farci piombare nell’inverno vero non è dato sapere. Molto dipenderà dall’eventuale rallentamento delle flusso zonale alle latitudini polari. Senza dubbio le settimane di vigilia vedranno un clima al più pseudo-autunnale e qualche temerario potrà fare il solito tuffo in acqua in qualche abbandonata baia siciliana.

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