La Libia è una polveriera, l’Italia è a rischio?
Dopo la caduta di Gheddafi la Libia è diventata una polveriera, una guerra civile che ormai incombe da circa quattro anni in una incessante contrapposizione tra bande armate.
Qualcuno rimpiange il generale libico, per la serie si stava meglio quando si stava peggio, tuttavia in Libia non è avvenuto quel processo di democratizzazione sulla scia di quel fenomeno chiamato primavera araba.
Era il 17 dicembre 2010 a Sidi Bouzid, nella provincia della Tunisia quando un giovane, Mohamed Bouazizi, si diede fuoco in un gesto di protesta contro le violenze della polizia, scatenando una sommossa popolare che di lì a poco avrebbe obbligato Ben Ali a fuggire dal paese.
La rivoluzione tunisina, che aveva colto di sorpresa il mondo intero assunse una maggiore rilevanza quando la stessa protesta scoppiò in Egitto, e a seguire in Algeria, Giordania e Yemen: la primavera araba si compì definitivamente con la crisi Libica. Oggi la Libia è governata da un parlamento con a capo il premier Abdullah al Thinni, premier provvisorio dopo che il Congresso ha respinto Ali Zeidan, primo ambasciatore e poi oppositore di Gheddafi, Ali Zeidan è stato nel 2012 eletto primo ministro e poi destituito dopo un sequestro lampo ed un presunto mandato di arresto. Una delle ipotesi più accreditate è che dietro il sequestro ci siano alcuni parlamentari. A seguito di questo episodio fu sciolta la Camera dei Rivoluzionari Libici, creata con il compito di difendere le Istituzioni. Una parte dei suoi componenti si è trasferita a Bengasi.
A capo delle forza libiche armate c’è il generale Khalifa Haftar, già colonnello ai tempi di Gheddafi, ha il controllo su milizie armate che già dai primi anni ottanta furono finanziate e dagli Stati Uniti con l’obiettivo di destabilizzare il regime di Gheddafi. Haftar ha fatto ritorno il Libia nel 2011 per partecipare alla rivoluzione che lo hai portato ad entrare nel Governo.
Nonostante il Governo libico abbia un Governo riconosciuto dalla comunità internazione il Paese è una polveriera, infatti una parte della Libia è rimasta in qualche modo fedele al vecchio parlamento di Tripoli, guidato da Omar Al Hassi, che ha il controllo di Tripoli e Misurata grazie alle milizie di Alba Libica, composta da guerriglieri legati a formazioni islamiche come Fratellanza Islamica o appartenenti ad una minoranza berbera.
A Bengasi invece troviamo il gruppo di potere dei jihadisti salafiti, formatisi durante la guerra civile ed ha come obiettivo il ritorno della Sharia in Libia. Gli jiahadisti salafiti si riconoscono nella miliiza di Ansar Al Sharia, affiliata ad Al Qaeda, alleata con la Brigata Martiri del 17 febbraio, è accusato di aver ucciso nel settembre del 2012 l’ambasciatore americano Chris Stevens.
Dalla Brigata Martiri si sono staccate delle milizie che hanno giurato fedeltà allo Stato Islamico, e a Derna hanno costituito il Califfato con l’intento di espandersi verso Tripoli.
Nella parte a sud della Libia invece prevalgono tuttora logiche tribali con i Tebu, alleati del generale Haftar e i Tuareg che invece sostengono il gruppo di miliziani che sono a Misurata.
Le due tribu si contendono un’area molto vasta, con una grossa presenza di petrolio, al confine con Algeria e Tunisia.
Infine in quest’area ci sono gli Amazigh, tribu berbera, che risponde solo a se stessa. Il pericolo Isis incombe tuttavia sarà non facile per i combattenti di Abu Bakr al Baghdadi restaurare e consolidare il Califfato.
La comunità internazione resta a guardare ed il premier Renzi nei giorni scorsi ha parlato in più occasioni di diplomazia e di nessuna ipotesi circa un presunto intervento militare.
L’Italia ha obiettivi economici strategici in Libia, passato coloniale a parte, dopo al caduta di Gheddafi tra la Libia e l’Italia è avvenuta rivisitazione del trattato di amicizia, la Tripoli declaration”: l’Italia, almeno nelle intenzioni, avrebbe dovuto avere un ruolo di primo piano nella ricostruzione del paese e nel rilancio della sua rete infrastrutturale. Senza considerare la presenza di Eni che da oltre cinquanta anni lavora in questo angolo di Africa.
Appena due giorni fa la Marina militare italiana si è diretta al confine con le acque territoriali di Tripoli, pronte a intervenire nel caso in cui la situazione libica precipiti ulteriormente. L’eventuale approdo in Libia sarebbe volto a proteggere gli interessi commerciali dell’Italia nel Paese.
Secondo il quotidiano “La Stampa”, che ha riportato la notizia, sarebbe “attenzionata” soprattutto la zona della costa dove passa il Greenstream, il gasdotto subacqueo dell’Eni. La struttura fino ad oggi è stata protetta dai 20mila uomini della guardia fedele al governo legittimo di Tobruk, ma con la recente avanzata dell’Isis, l’esercito libico non sembra più poter garantire la sicurezza della struttura.