Obama, Charlie Hebdo e la guerra all’Islam
Lo scorso 21 gennaio Barack Obama si è presentato davanti al Congresso degli Stati Uniti per chiedere un rafforzamento della presenza militare in quella porzione di Medioriente in cui l’Isis detta legge.
Il presidente degli Stati Uniti si è presentato al Congresso come se fosse la prima puntata della seconda stagione di una serie tv, in cui la prima stagione si apre con l’elezione del primo presidente afroamericano che annuncia il ritiro delle truppe americane impegnate in guerra, in primis in Iraq.
Nonostante le prospettive di pace ora Obama si trova davanti ad una nuova sfida con il cosidetto terrorismo internazionale, quell’Isis che il presidente americano ipotizza di sconfiggere o quantomeno depotenziare con la strategia dei droni e dei bombardamenti.
Teoria che convince poco i repubblicani che invece chiedono un maggiore impegno di uomini sul campo di guerra.
Così mentre negli Stati Uniti si decidono le strategie con cui combattere il nemico l’Europa fa i conti con l’attentato di Parigi, discute di Islam e libertà d’espressione.
L’11 gennaio in migliaia hanno sfilato a Parigi, tutti accomunati da “je susis Charlie”, tra di essi anche i Capi di Stato, molti di essi non esattamente difensori della libertà d’espressione.
C’era il ministro degli Esteri russo Lavrov, il primo ministro ungherese Viktor Orbán, che dal 20011 ha introdotto una legge che punisce “l’informazione non equilibrata”.
C’era il presidente del Gabon Ali Bongo, dove lo scorso 3 gennaio scorso il giornalista Jonas Moulenda, autore di un’inchiesta sui crimini rituali, è stato costretto a lasciare il Paese per rifugiarsi in Camerun.
Presente il presidente del Benin, Boni Yayi, dove i giornali Le Béninois libéré e L’indépend sono perseguiti per offesa al capo dello Stato.
C’era Sameh Shoukry, ministro degli Affari esteri dell’Egitto, Paese dove attualmente sedici giornalisti sono incarcerati.
Poi Ahmet Davotoglu, primo ministro della Turchia, dove la lotta al terrorismo, secondo Reporters sans frontières, viene utilizzata per giustificare la persecuzione di giornalisti sgraditi al governo.
Era presente il ministro degli Esteri algerino Ramtane Lamamra, che ha manifestato sotto il cartello “Je suis Charlie” ma ad Algeri sono proibite le manifestazioni contro il quarto mandato del presidente Abdellaziz Bouteflika.
Libertà d’espressione ma non troppo perchè alcuni giorni dopo l’attentato terrorista, le autorità arrestano Dieudonné M’bala M’bal, attore e attivista francese, finito ai domiciliari.
M’bala M’bal nei giorni successivi all’attacco nella sede di Charlie Hebdo ha scritto su Facebook: “Je suis Charlie Coulibaly“, mischiando “je suis Cahrlie” con il cognome di Amedi Coulibaly, l’uomo che insieme ai fratelli Kouachi ha seminato il panico, uccidendo cinque persone prima di essere freddato dalla polizia.
Alla manifestazione/evento assente il presidente degli Stati Uniti, “Barack Obama non è Charlie” hanno attaccato alcuni quotidinai americani, per sottolineare l’assenza di qualsiasi rappresentante dell’amministrazone statunitense.
Ciò che resta dopo i fatti di Parigi sono due, la guerra mai sopita in Medioriente e la questione Islam che in Europa, purtroppo, vine vissuta e analizzata in una contrapposizione netta tra due categorie, quella che parla dei “musulmani buoni” e quella populista che parla di “invasione islamica”.
Così mentre Obama riprogramma l’ultima fase del suo mandato, l’Europa perde una nuova occasione di formazione, perdendosi tra i meandri del qualunquismo alla Marie Le Pen che ha parlato dell’ipotesi di ritrodurre la pena di morte e tra coloro che parlano di “Islam buono” con cui dialogare, come se ci fosse un “Islam buono ed uno cattivo” ed un “cristianesimo buono ed uno cattivo”.
L’Europa non può prevedere nuovi attacchi però può certamente favorire una nuova politica dell’integrazione che deve necessariamente ripartire dal degrado economico e sociale delle periferie dell’eurozona.
Sono centinaia e centinaia i giovani, musulmani e non, che vivono nelle periferie francesi che si sono apertamente dissociati dal “Je suis Charlie” della manifestazione/evento dell’11 gennaio, dissociati dall’ipocrisia politica di chi sfila a testa bassa in nome della libertà d’espressione.
Se il numero 1.179, il primo dopo il massacro di dodici persone nella redazione di Charlie Hebdo, ha toccato i 7 milioni di copie, il numero 1.180 del settimanale satirico francese non vedrà la luce né il 4 né l’11 febbraio. Anzi al momento non esiste una data, ha spiegato Anne Hommel, responsabile della comunicazione di Charlie.
Non è una rinuncia o un arretramento davanti alle minacce islamiste, ha aggiunto, ma un semplice problema di stress e stanchezza della redazione, provata dal massacro del direttore, Charb, e di altri 3 vignettisti, dai funerali e dalla fatica di pubblicare in condizioni estremamente difficili il numero dopo la strage.