Compensi ad alta velocità
Con Bovo e Glik forma un terzetto difensivo di grande esperienza, che quest’anno se la sta cavando egregiamente nel Toro di Ventura. Mi sono quindi chiesto perché mai volesse andarsene nel caso in cui l’anno prossimo gli rinnovassero il contratto con una decurtazione del compenso. In fondo un giocatore che va verso i 33 anni può ben pensare di accontentarsi di meno degli attuali 700 mila euro. Poi mi è stato detto che non era quell’Emiliano Moretti che ha dignitosamente calcato anche il campo del Mestalla di Valencia, cui io ingenuamente avevo pensato, bensì l’ingegnere Mauro Moretti, laureatosi dalle parti di Porta Saragozza a Bologna nei mesi in cui il movimento studentesco bloccava il centro cittadino, a seguito dell’uccisione dello sfortunato militante di Lc Francesco Lorusso.
L’ingegnere, oggi a capo di Ferrovie dello Stato dal 2006 e prima amministratore delegato di Rete Ferroviaria Italiana dal 2001, la lotta continua per emergere in carriera l’ha cominciata da subito, divenendo da un lato quadro presso l’Officina Trazione Elettrica di Bologna ed dall’altro iscrivendosi alla Cgil, per passare col tempo, sempre da un lato, a rivestire ruoli dirigenziali nelle Fs e, sempre dall’altro, a ricoprire l’incarico di segretario nazionale della Cgil Trasporti a fine anni ’80. Sino a quando, oberato dalla duplice attività, ha optato per proseguire l’ascesa personale fra gli amati treni.
Questi, e non il citato calciatore, ha rilasciato alla stampa la concisa e franca risposta alla domanda circa eventuali tagli al suo misero stipendio (incredibilmente di sole 150.000 mila euro superiore a quello di un “vecchio” terzino e tre volte inferiore a quello del collega tedesco!!!): “non c’è dubbio che me ne andrei a cercare un’altra occupazione”.
Apro qui la polemica sugli stipendi d’oro dei managers, di Stato ma non solo, puntualizzando che dopo un primo momento di panico si è appreso che la obbligatorietà del tetto a circa 300 mila euro annui non riguardava le Ferrovie dello Stato (così come non concerne nemmeno Eni, Enel, Poste, Cassa Depositi e Prestiti, ecc.) e che quindi se il boy scout toscano con le mani in tasca riuscirà, nell’orbita della spending review, a fare ingoiare anche a Moretti un taglio al compenso non sarà per obbligo ma per “moral suasion”. Ma immediatamente la chiudo, dicendo che ci mancherebbe pure che non si convincesse al sacrificio, in questi chiari di luna, chi può consumare quotidianamente, seppur nel personale orgoglio di aver risanato l’azienda e di aver impiantato l’Alta Velocità in Italia, l’equivalente economico di circa uno stipendio mensile altrui.
Preferisco provare a ricostruire, seppur parzialmente, il quadro della mobilità su rotaia nel nostro paese e la china discendente, a meno che non si rimanga abbacinati solo dalla possibilità di raggiungere Roma da Milano in circa 3 ore, che la stessa mobilità ha intrapreso negli ultimi 20-30 anni. Forse così si inquadrano meglio anche i discorsi circa la giusta remunerazione e circa la capacità di fare utile.
I primissimi tratti di linea ferrata vennero inaugurati, a cavallo fra il 1840 e il 1850, dai regnanti borbonici fra Napoli e Caserta e sulla direttrice Napoli–Portici-Castellammare, da quelli del Lombardo-Veneto fra Milano e Monza, Milano e Treviglio, nonchè sulla direttrice Venezia-Padova-Vicenza, da quelli sabaudi fra Torino e Moncalieri, da quelli dei vari granducati toscani, fra Firenze e Prato, fra Lucca e Pescia, nonchè sulle direttrici Livorno-Pisa-Lucca, Pisa-Empoli-Firenze. Partiti con leggero ritardo i regnanti sabaudi vantavano però, alla vigilia dell’Unità d’Italia nel 1861, la rete ferroviaria più estesa con 800 km di binari, seguiti dai 520 km del Lombardo-Veneto, dai 320 km della Toscana, dai 130 del Regno delle Due Sicilie e dai 100 km dello Stato Pontificio. Di questi circa 2.000 km di ferrovia, solo un quarto era direttamente gestito dallo Stato.
Già nel 1870 però i km di linea ferrata divennero più di 6.000 e con il metro di paragone odierno, circa lo sviluppo delle costruzioni, risulta quasi inconcepibile la crescita esponenziale in un tempo così ridotto. Confrontando una cartina della rete ferroviaria italiana risalente a 150 anni fa con quella attuale non troveremmo differenze enormi, quanto meno per i collegamenti fra le grandi città: risalterebbero la totale assenza di ferrovie in Sardegna, la scarsissima presenza in Sicilia, la mancanza della Eboli-Reggio Calabria, della Verona-Bologna e della Savona-Ventimiglia, nonchè dei collegamenti diretti fra Bologna e Firenze (assicurati però via Porretta-Pistoia), fra Venezia e Trieste (via Treviso-Udine), fra Firenze e Roma (via Perugia-Terni) e della Direttissima Roma-Napoli.
Tale, seppur parziale, sovrapposizione della mappatura già ci induce a capire che frenata ci sia stata, nei decenni, nell’espansione del trasporto su rotaia. Una implosione che non venne da subito però. Anzi nelle epoche giolittiana e fascista si registrò una grande centralità dei collegamenti ferroviari nelle politiche dei governanti, il che portò alla ricostruzione delle linee danneggiate dalla prima guerra mondiale, all’ammodernamento delle infrastrutture e del parco mezzi e al risanamento economico delle tratte precedentemente gestite da svariate società. Ma anche nel secondo dopoguerra, vari piani straordinari di intervento e robuste iniezioni di liquidità dalle casse dello Stato riportarono le ferrovie in auge, con il completamento del collegamento veloce fra Bologna e Napoli, il potenziamento delle linee per i pendolari e l’elettrificazione di molte tratte.
Si può invece individuare l’inizio di una crisi irreversibile negli anni ’80, quando politiche clientelari e speculative dissennate hanno cominciato da un lato a depauperare il know how tecnico e ad affievolire la ricerca e l’innovazione e dall’altro a incrementare i km di piccole linee ferrate, con interventi a pioggia e miriadi di lavori inutili e spesso interminabili, assestando così un colpo definitivo alla trasformazione della rete ferroviaria classica in un sistema agile e interscambiabile di mobilità locale intorno alle grandi città. La incapacità di dare una prospettiva di alto respiro al pendolarismo su rotaia andò di pari passo con la forte spinta delle varie lobbies motoristiche per trasportare le merci sempre più su gomma e sempre meno con i treni. Dulcis in fundo, negli anni ’90, l’Ente Ferrovie dello Stato viene trasformato in una Società per Azioni e si avrà la separazione amministrativa tra il gestore della rete ed il gestore del servizio, aprendo la strada ad una privatizzazione, che poi nei fatti partorirà, solo in epoche recenti, il topolino di Ngv, che fa viaggiare Italo sulle linee AV, sempre di proprietà di Trenitalia (la quale infatti gestisce tutta la rete).
Rfi (Rete Ferroviaria Italiana) è invece la società che gestisce il servizio per conto dello Stato e la sua rimane pure una posizione sostanzialmente monopolistica a livello nazionale, in quanto solo a livello locale e regionale viaggiano treni il cui esercizio è garantito da società miste, come Trenord in Lombardia o Fer in Emilia-Romagna.
In buona sostanza il suddetto quadro contribuisce a spiegare come, grazie agli investimenti massicci nell’alta velocità e agli incassi che essa garantisce, grazie alla posizione, nei fatti, monopolistica nella rete e dominante nel servizio, grazie al disimpegno ed alla regionalizzazione del trasporto locale, grazie al taglio dei cosiddetti rami secchi e del personale adibito, grazie alla riduzione dei costi in manutenzione e progettazione, siano buoni tutti a fare utili.
Credo in definitiva che per concludere il ragionamento siano sufficienti alcuni dati che di seguito elencherò: Bologna – Brennero 4h 40’, in treno, a fronte delle 3h 20’ in autostrada; Torino – Savona 2h 15’, a fronte di 1h 35’ in autostrada; Ventimiglia – La Spezia 4h 45’ in media, a fronte di 2h 55’ in autostrada, con soli 4 collegamenti diretti al giorno; Parma – La Spezia 2h 10’, a fronte di 1h 25’ in autostrada; Udine – Trieste 1h 20’, a fronte di 50’ in autostrada; Ancona – Roma 3h 40’, a fronte di 2h 50’ in autostrada, con soli 5 collegamenti diretti al giorno; Pescara – Roma 3h 45’, a fronte di 2h in autostrada, con soli 3 collegamenti diretti al giorno; Napoli – Bari 3h 50’, a fronte di 2h 30’ in autostrada, con 3 soli collegamenti al giorno e con cambio obbligatorio a Caserta; Napoli – Reggio Calabria 4h 30’ in media, solo una mezzoretta in meno della tanto vituperata A3; Taranto – Catanzaro 4h 25’, a fronte di 3h 20’ in autostrada, con un solo collegamento diretto al giorno; Palermo – Messina 2h50’ in media, a fronte di 2h 15’ in autostrada.
E venendo allo scandalo lunghe distanze, le quali implicano spostamenti importanti di studenti fuorisede, di famiglie di emigrati, di anziani che cercano al Nord assistenza ospedaliera anziché familiare, ecco qualche altra chicca: Milano – Palermo 20h 30’, a fronte di 14h 30’, con un solo collegamento diretto, notturno; Milano – Crotone fra le 13 e le 16 ore di percorrenza con cambio obbligatorio, in quanto è stato soppresso il precedente storico collegamento, un tempo funzionante con due convogli, uno di giorno e uno di notte, a fronte di 11h 15’ in autostrada.
Infine se voleste muovervi, economicamente, di giorno fra le principali metropoli, scordatevelo. Fra Milano e Roma di giorno vi sono 3 soli collegamenti effettuati non con le Frecce dell’alta velocità, e ci impiegherete le vecchie 6h 30’; non c’è alcun collegamento fra Torino e Venezia; 5 quelli fra Bologna e Bari.
A tutto ciò si deve inoltre aggiungere la dismissione dei cosiddetti rami secchi. Si tratta della bellezza di 7.500 km di linee, fra cui la Fano – Urbino, la Caltagirone – Gela, la Modena – Vignola, la Arezzo – Umbertide, la Frosinone – Fiuggi, la Orte – Civitavecchia, la Rimini – San Marino, la Mortara – Asti, la Avellino – Rocchetta Sant’Antonio, la Sulmona – Castel di Sangro, la Siracusa – Ragusa, la Treviso – Legnago, solo per citare le più importanti.
L’immagine che bene rappresenta quella che ritengo una sconfitta atroce per la mia idea di mobilità pubblica è una delle tante stazioni abbandonate del bel paese, con le pensiline in disfacimento, le grate sulle biglietterie, i ciuffi di erba fra le traversine di legno, le scritte demenziali sui muri ed un vecchio capostazione che cammina su e giù lungo i marciapiedi del “binario 1” e, leggendo le pagine con la dichiarazione di Moretti, si interroga su come faccia a non sentirsi un privilegiato con la sua pensione “d’oro” di ex dipendente statale.
Essendomi dilungato a causa della necessità di partecipare con dei dati, anche chi non è avvezzo prendere il treno, circa lo sfacelo in cui si ritrovano oggi le ferrovie, con una mobilità di serie A garantita dalle Frecce, che gareggia con l’alternativa aerea, ed una mobilità di serie B, per i comuni mortali che o non hanno i soldi o non hanno la necessità di percorrere l’Italia sfrecciando a 300 km orari, sintetizzerò al massimo le previsioni meteo.
Anche perché non sembrano esserci novità di rilievo rispetto alla partenza sprint della primavera. L’incipit di questa stagione in realtà si pone sulla scia del “finto” inverno e di un’annata 2014, sin qui con stabilità meteorologica e valori di temperatura decisamente improntati al bel tempo. Quindi giornate di sole un po’ su tutta la nazione, con un guasto fra il 3 e il 4 aprile, determinato dall’arrivo di una classica perturbazione atlantica, il cui nocciolo principale sembra diretto verso le regioni centrali. Una parentesi limitata perché già dal prossimo fine settimana, salvo qualche disturbo ancora sulle regioni meridionali joniche e sulla Sicilia, l’anticiclone azzorriano si riapproprierà della scena mediterranea, garantendo stabilità e temperature sopra la media sino ad almeno metà del mese.