Il Gallo Nero, la cacciata dei Medici e la riforma della Costituzione
Ti sei mai chiesto, caro lettore, come mai il simbolo del Consorzio del Chianti Classico è un gallo nero? Oltre a riprendere lo stemma della trecentesca Lega del Chianti, il marchio storico si rifà a una leggenda che racconta una tregua tra fiorentini e senesi, esausti dopo anni di battaglie. Come risolvere la disputa? Come tracciare un confine definitivo? Con una sfida tra cavalieri, naturalmente. Ma non un duello: l’accordo prevedeva che dove i due si fossero incontrati partendo dalle rispettive città al canto mattutino del gallo, là sarebbero stati i limiti territoriali. Individuato il cavaliere e scelto il cavallo, si dovette selezionare un pennuto per dare il segnale di partenza all’alba del giorno stabilito. I senesi scelsero un paffuto gallo bianco, che curarono e rimpinzarono; i fiorentini sbatterono un galletto nero in una gabbia, e lo lasciarono a stecchetto. Fame e desiderio di svolazzare nell’aia fecero sì che il giorno della gara il gallo nero cantò prima del sorgere del sole, consentendo al prode gigliato di partire ben prima del rivale e percorrere così molta strada in più: l’incontro fra i due avvenne a Fonterutoli, a una quindicina di chilometri da Siena. Il Chianti era fiorentino.
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Era il Medioevo, e Firenze era un Comune. La città prosperava e si alzava la qualità della vita dei nobili e dei mercanti; le produzioni artigianali miglioravano e dunque anche l’intensificarsi degli scambi commerciali. Tutto questo funzionò fino alla prima metà del ’400, quando il banchiere più importante dell’ormai ricca Firenze puntò i piedi e decise che di lì innanzi avrebbe comandato lui. “Chiamatelo Comune, chiamatela Repubblica, chiamate Firenze come vi pare, ma le decisioni le prendo io”. Ecco il pensiero, e l’azione politica, di quel signore. Che si chiamava Cosimo de’ Medici.
La città continuò a prosperare nei suoi ceti alti, mentre i poveri continuarono a morire giovani per le condizioni di vita indegne a cui erano obbligati dai primi grandi capitalisti del mondo. In quegli anni, quando forse solo l’arte faceva splendere la sua luce in un periodo fitto di ammazzamenti, carestie, violenze e superstizioni, Donatello realizzò un’opera che segnò la sperimentazione dell’epoca: il suo bronzo che rappresenta Giuditta e Oloferne è caratterizzato da un’intensità che solo raramente potrà ancora scaturire dalle mani di uno scultore. La statua fu commissionata proprio dal signore-e-banchiere Cosimo il Vecchio, che se la mise in giardino. Mai avrebbe pensato che trent’anni più tardi, nel 1494, i fiorentini si sarebbero stufati di essere usurpati della loro libertà da parte di una famiglia di contasoldi da strapazzo. Ma così fu, e il sangue del suo sangue fu cacciato in malo modo. Qualcuno pensò anche di aprire i cancelli di casa Medici per offrire al popolo un souvenir della detronizzazione e così, in quella piazza che ironicamente ancora oggi è intitolata alla Signoria, fu portata la Giuditta di Donatello; e al posto delle iscrizioni medicee i fiorentini misero una frase chiarissima. Le signorie cadono per il lusso, le città sorgono per le virtù: ecco un collo orgoglioso reciso da un’umile mano (regna cadunt luxu, surgunt virtutibus urbes: cesa vides humili colla superba manu).
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Oggi non ci sono più segni di confine tra Firenze e Siena, il regime repubblicano è instaurato in Italia da sessantacinque anni e le grandi opere d’arte del Rinascimento sono a disposizione degli occhi di ogni cittadino del mondo. Eppure, non so, trovo qualche analogia col Medioevo. Tre, su tutte.
La prima. I poveri sono ancora poveri, trattati con disinteresse da una larga fascia della popolazione benestante.
La seconda. Alcuni banchieri controllano il potere esecutivo degli stati pur lasciando loro l’apparenza e la denominazione di sovranità.
La terza. C’è un fiorentino importante, tale Matteo Renzi, che si comporta esattamente come i suoi antenati. Non ha remore, non teme nulla. Non si dispiace di dover mettere il gallo in una gabbia e lasciarlo senza cibo: sa che poi i suoi cavalieri arriveranno prima degli altri. È già successo, perché non riprovarci?
Il problema è proprio questo. In un paese dove non abbiamo ancora risolto il dramma della povertà, che anzi si accentua per responsabilità di spietati operatori finanziari, noi continuiamo ad affidarci ai trucchi, ai mezzucci, alla prevaricazione. Quello che sta facendo Renzi con il PD e Forza Italia è una riproposizione della disputa del pennuto. Non importa sacrificare qualcuno o qualcosa, basta vincere. Oggi sta accadendo: accordandosi con Berlusconi per questa nuova legge elettorale, in un colpo solo Renzi sacrifica l’alleato di sinistra (SEL) e il dettato della Corte Costituzionale. Lo scopo? Arrivare a garantire a sé stesso cinque anni di governabilità, ovvero mettersi al riparo dal giudizio del popolo e dal senso di responsabilità dei deputati fino alla successiva tornata elettorale (su questo argomento è interessante l’editoriale di Marco Bascetta sul Manifesto del 30 gennaio).
Vedremo allora che cosa accadrà, ma se è vero che in politica il fine giustifica i mezzi è altrettanto chiaro che arriva il momento in cui il governante deve rendere conto al governato. Renzi deve scegliere il da farsi con intensa attenzione. Sta spianando la strada per una riscrittura improvvisata (“l’urgenza delle riforme”, si sente ripetere: ma qual è l’urgenza?) della Costituzione; e chi l’ha studiata, la nostra Costituzione, sa quanto sia attentamente bilanciata in ogni sua parola, perfino nella punteggiatura, per assicurare i diritti di ciascuno e della collettività. Il rischio è di sbilanciare il paese ancora più verso la mancanza di fiducia nelle istituzioni e nei cardini della socialità politica (la Costituzione stessa e il Parlamento), cancellando la rappresentatività di larga parte del corpo elettorale e generando una spirale di soprusi politici. Una vera e propria ingiustizia ai danni di quella parte del paese che non ama sentir parlare di sintonia con chi ha sostenuto un’idea di Italia in cui il corrotto è furbo, il disonesto è costretto a esserlo e l’ostentazione delle capacità economiche è più importante della dignità. Come nel Medioevo.
E come nel Medioevo, Renzi vuole governare senza noie. Ma è bene che il sindaco di Firenze tenga a mente cosa successe nel 1494 al signore di Firenze, che per inciso si chiamava Piero il Fatuo. Fu cacciato. Forse un’occhiatina alla Giuditta, Matteo, la dovrebbe dare. Ogni tanto. Così. È arte.