Questa mattina non c’è stato modo migliore di salutare la città se non quello di sgattaiolare attraverso un abbaino e arrampicarmi su un tetto di lamiera per accarezzare con lo sguardo ogni guglia e ogni palazzo di questo luogo speciale che mi porto dentro. E’ incredibile la rapidità con cui le cose possano cambiare in una settimana.
Prima di partire non ho avuto molto tempo per sognare il viaggio, la routine italiana mi aveva prosciugato ogni goccia di immaginazione. La stanchezza, l’irrequietezza, il non sentirsi al posto giusto, quello strano senso di oppressione e di smarrimento che ha caratterizzato il mio lungo inverno mi avevano seguito fin qui e si riflettevano nelle nubi scure e nel ghiaccio che avvolgeva la città. Parlando con i Pietroburghesi è stato un attimo il ritrovarmi nella loro nostalgia per il sole. E quando sono arrivata qui il mio muovermi era fatto di sguardi sul marciapiede, per non mettere un piede in fallo, di mani troppo fredde per scattare ricordi e di un costante senso di intirizzimento generale. Ma nonostante le condizioni avverse, con immensa gioia, ho scoperto che sotto il freddo e infido gelo si nascondono infinite meraviglie, basta solo aspettare, come fa la gente di qui.
Oggi ho visto la mia prima fontana in funzione e per quanto insignificante ai più, per me ha rappresentato l’inizio di una nuova stagione, non solo atmosferica. Ho faticosamente infilato nello zaino tutti i vestiti pesanti, ormai inutili, e, come sempre, mi sono accorta che adesso pesa più di quando sono partita, mentre io al contrario mi sento alleggerita. Ho ritrovato nei sorrisi di un’amicizia bizzarra la capacità di ridere che avevo lasciato chissà dove e nella separazione, la capacità di poterla vivere senza amarezza, ma di poterne assaporare la dolce malinconia che ne rende i ricordi più piacevoli da richiamare alla mente.
Ho ritrovato nella compagnia di un gatto, l’immensa goduria di arrotolarsi beati, nello sguardo di simpatia della cameriera del mio bar preferito la piacevolezza del non essere estranei, nel rispondere a una commessa alla domanda giusta nel modo giusto (o quasi) la sensazione di essere sulla buona strada e soprattutto ho ritrovato la tranquillità di essere quella che sono, calzini spaiati, gonne (ebbene sì) e un sacco di righe.
Pare che le donne Russe siano parecchio esigenti. Che si aspettino che ci sia sempre un uomo che apra loro la porta, paghi sempre tutto e si faccia carico di qualunque incombenza. E i ragazzi stranieri talvolta ne ridono, chiedendosi come esse facciano a sopravvivere senza avere accanto qualcuno che versi loro da bere o scosti la seggiola dal tavolo perché si accomodino, immaginandole vagolare nei ristoranti, senza fissa dimora, smarrite come idrovolanti nel deserto in cerca di una pista d’atterraggio.
Memore di come erano le mie nonne sovietiche, sono certa sia solo una posa, ma devo dire che è bello ricevere gentilezze, per quanto magari frutto di automatismi e sorprendere chi le fa con un sorriso e un ringraziamento, lasciando i poveretti imbarazzati e balbettanti. Piccoli gesti come offrire una birra non solo al proprio amico, ma anche al suo coinquilino, vengono accolti con uno sbigottimento esagerato per i miei canoni, ma che scalda il cuore. E’ strano ritrovare la propria femminilità quando i capelli, a causa delle misteriose proprietà dell’acqua di qui, che asciuga in un attimo, ma non lava via nulla, sono spesso un unticcio groviglio scomposto e i piedi, estratti dai pelosi scarponcini per accedere agli appartamenti privati, puzzano come un caseificio in agosto…
E’ strano. Come immaginare la nonna Olga, per me sempre canuta e grinzosa, come quella “sexy” della famiglia. E’ strano, ma ora possibile. Come il mio rispondere in una lingua non più così oscura e non più fatta solo di sopracciglia corrugate.
E come sempre vi ringrazio per esserci stati, perché la felicità vale molto meno, se non la si può condividere.
я рада, безмерно.