Giro di boa
La luce entra copiosamente dalle finestre della mia nuova stanza, in un appartamento poco distante dal primo, che condivido con una ragazza timida e pallida, ma molto gentile. Oltre ai raggi solari entrano anche un paio di spifferi in più, stabilendo finalmente una temperatura in door più che ragionevole.
Anche a scuole ci sono stati dei cambiamenti: la Svizzera è stata sostituita da un Finno-svedese attempata, in viaggio di piacere e studio col marito e la dolce insegnante da un piccolo ometto peloso sui quaranta e con vaghe tendenze fascistoidi. Fortunatamente il mio Russo non è sufficiente a spingermi a conversazioni riguardo all’etica che indubbiamente genererebbero disappunto nel nuovo professore.
Vivendo a San Pietroburgo ormai da due settimane e avendo verificato la teoria secondo la quale qui, l’unica differenza tra inverno e primavera, sia l’andare al lavoro con la luce o meno, ho imparato ad apprezzare ogni singolo istante di sole, che potrebbe decidere di non ripresentarsi più per giorni, e a sfruttare i lunghi pomeriggi passeggiando per la città.
Il fine settimana passato abbiamo organizzato una gita al Palazzo Puskin, sfarzosa residenza estiva che vanta gigantesche stufe in ceramica e una quantità di oro impressionante, oltre ovviamente alla celeberrima stanza interamente decorata in ambra e misteriosamente scomparsa decenni addietro, per poi essere recentemente ricostruita grazie a sponsor tedeschi.
E mentre Michael e i suoi amici hanno dedicato la serata al jazz, io e le ragazze siamo andate alla scoperta della vita notturna San Pietroburghese. Sotto indicazione di Regine, che casualmente si era trovata a passare in una via accanto al Gostinyj dvor e che prontamente l’aveva battezzata “la via degli sbronzoni”, facciamo i nostri primi passi nella night life entrando in un locale dall’apparenza innocuo, eletto da me, irresistibilmente attratta dalla ruvida voce di Eddie Vedder che ne fuoriusciva. Tempo di ordinare una birra e fare due chiacchiere, che in sottofondo si sentono gli accordi familiari di “Wish you were here”, ma la voce che attacca a cantare “Soooooooo” è definitivamente tutta sbagliata. E mentre penso “Chi diavolo farebbe una cover così orribile?” alzo gli occhi e mi accorgo che è un biondino smilzo, che si aggrappa disperatamente al microfono, quasi questo fosse Kate Winslet sulla trave di legno e lui un Di Caprio in ibernazione. Siamo finite in un Karaoke bar! E tanti saluti alla bella musica. Perché pare che il passatempo prediletto di ragazzi super tatuati e con l’aria da veri duri, sia quello di massacrare ogni singola canzone che amo, ululando come coyote o stridendo come seghe sul metallo.
Ma non ci diamo per vinte, infondo la via è un susseguirsi di microscopici localini uno accanto all’altro, più o meno tutti a pianta rettangolare, lunghi e stretti, con un’unica finestra che dà sulla strada: cassato uno, se ne sceglie un altro. E via di nuovo dunque, tutte al “FIDEL”. Le due birre ciascheduna più un cocktail rendono le mie compagne decisamente più loquaci e io, molto più sobria, più per questioni economiche che etiche, mi godo le risate e le prendo al volo quando scivolano. Perché i marciapiedi, decisamente impraticabili anche senza alcool in corpo, diventano un’impresa ardua se un goccetto lo si è bevuto.
Passati i controlli di sicurezza, che consistono in due omaracci che frugano con lo sguardo la tua borsetta e il tuo giaccone ci avviciniamo alla “pista da ballo” ossia una zona provvista di predella in fondo, tra il bancone del bar e le toilets. E cominciano le danze. Ora, ogni paese ha indiscutibilmente il suo stile particolare quando si parla di “balli da locale”: la sensualità dei Colombiani e dei Mongoli, l’allegria degli Argentini, il composto ondeggiare degli Inglesi, lo stile Ultras degli Statunitensi… ma mai, MAI avevo visto gente ballare così.
I russi la musica la prendono a cazzotti.
E mentre le donne danno colpi di fianchi e scuotimenti di seni come tarantolate, gli uomini brandiscono i pugni e con rapide mosse scattanti saltellano come fossero sui carboni ardenti o posseduti dallo spirito di Mohamed Alì, sferrando attacchi a nemici invisibili, almeno dai più, sotto lo sguardo divertito di Louise che tenta inutilmente di filmarli. In Russia è ancora legale fumare nei locali, non importa se completamente sprovvisti di qualsivoglia sistema di ventilazione, e presto, tra sigarette, sudore e pigia pigia, tanto che quasi non ci si riesce a muovere, l’afrore è potentissimo. E ti accompagna anche fuori, nelle diverse boccate d’aria di cui hai bisogno, e il giorno successivo, appiccicato ai capelli stupidamente lavati prima di uscire e inevitabilmente da sciacquare ancora. E come ciliegina sulla torta, una volta emersa dalla folla palpitante, inciampo… su un cavallo.
Già.
La prima cosa da fare, se sono le tre di notte e s’inciampa su un cavallo, non è domandarsi se ci si è fatti male, è chiedere alla tua amica “Lo vedi anche tu vero?”. Poi, forti del nostro stato di non allucinazione (se la risposta dell’amica è stata affermativa) la seconda cosa da fare è ricomporsi, sorridere al conducente del cavallo e domandargli “Cosa ci fai’?” indicando l’equino. Pare che, per diletto, se uno volesse potrebbe noleggiare il quadrupede per fare anda e rianda nella via. E tanti saluti alla protezione animale. La serata si conclude con un appuntamento per la domenica mattina per visitare un mercato che si tiene solo durante il fine settimana.
Sfortunatamente non ne ricordo il nome, ma se devo conferigliene uno io lo chiamerei “Il mercato delle pulci sul ghiaccio”. Si tiene in un parco analogo al Parco Nord di Bologna in quanto ad “arredo urbano”, ma più piccolo in dimensioni, dove un reticolato di bancarelle e teli per terra espongono qualsivoglia chincaglieria di qualsivoglia tipo. Le viuzze sono interamente coperte di ghiaccio, perché non c’è il sole a scioglierlo con una rapidità sorprendente e camminarci in mezzo richiede molto equilibrio e molta coordinazione, oltre a scarpe robuste e impermiabili (a questo proposito, mai 90 euro furono spesi meglio, per chi ha visto i miei orridi stivaletti da battaglia, che non hanno fatto una piega ad infilarsi in pozzanghere alte fino alla caviglia e ad uscirne intonsi). Dopo i banchi di abbigliamento più o meno ordinati, comincia il selvaggio west dei robivecchi, dove bambole ti guardano con un occhio solo e arnesi utilizzati dalla famiglia Flinston (Los Picapiedra, mi amor) spuntano da casse di legno invogliandoti a cercare un pellicano da usare per fare il cemento, come fece Homer.
Per sapere cosa si nasconde nella Kunstcamera, come sono i cinema, dove si spiaggiano i “trichechi”, e chi sta ronfando sulle me gambe… sapete già cosa dovete fare.
Vi abbraccio forte.