Le proteste del popolo in corso in Brasile, Egitto e Turchia
In occidente sembra tutto fermo. I giornali riportano le solite lagnanze sull’economia che va a rotoli, sulla produzione industriale che diminuisce irrimediabilmente e, di conseguenza, sul drammatico calo dell’occupazione e dei consumi. L’ordine costituito, con le infinità di imperfezioni che lo caratterizzano, pare non subire alcuna pressione concreta e reale che lo costringa a migliorarsi. Persino in Italia, nonostante un aumento esponenziale del voto di protesta (Movimento Cinque stelle, astensionismo), il sistema politico continua a rimanere indifferente ai propri esorbitanti limiti. In generale nel mondo ricco, pare che proprio non interessino granché le articolazioni con le quali la società è domata. Anche se poi si rimane stupefatti e inorriditi allorquando si scopre che milioni e milioni di americani (ma c’è da ipotizzare: non solo) sono intercettati senza essere sospettati di nulla oppure che i proprietari dei social network probabilmente vendono in qualche modo dati relativi agli utenti alla National Security Agency.
Altrove, invece, pare proprio che le acque siano piuttosto agitate e si può immaginare facilmente il terrore del potere nel constatare la carica rabbiosa delle masse. Ad esempio, in Brasile, Turchia ed Egitto sembra che la popolazione non sia più disposta a tollerare le angherie e la corruzione dei governanti. Un aumento del costo dei biglietti del trasporto pubblico nel Paese carioca ha innescato un turbine di proteste alquanto violente in tutte le maggiori città. Qui la corruzione ha raggiunto livelli inusitati, in particolare nell’amministrazione pubblica e nei palazzi della politica dei vari stati federali. La povertà è diminuita rispetto al recente passato, ma la crisi globale ha annacquato la crescita economica del gigante del Sud America e parte della popolazione vive ancora in condizioni di perdurante sofferenza economica. Inoltre, il cittadino brasiliano si chiede se il gioco dell’organizzazione dei prossimi mondiali ed olimpiadi valga la candela. Non sarà semplice per Dilma Rousseff gestire la rabbia delle classi sociali più povere e delle nuove generazioni, che la accusano di aver abbandonato il popolo per la quale durante la guerriglia ha caparbiamente lottato.
In Egitto il presidente Mohamed Morsi non convince più e Piazza Tahrir è pronta nuovamente ad esplodere. L’uomo che piace ai governi occidentali, perché garante dei vecchi equilibri geopolitici, ha clamorosamente deluso le aspettative del composito bacino elettorale che lo ha sostenuto all’indomani della primavera araba egiziana. Ignorando le più semplici istanze economiche e sociali della popolazione, ha concentrato la sua azione politica sulla neutralizzazione della magistratura e sulla islamizzazione della società, oltre che sull’aumento del suo stesso potere. Ora il Paese ha visto incrementare esponenzialmente il tasso di criminalità, a grave danno del turismo, una delle poche fonti economiche consistenti del Paese (oltre a gas e petrolio). E la popolazione è sempre più povera e di nuovo propensa ad una crisi di nervi che si preannuncia travolgente come quella del 2011. Insomma, ci sono tutti gli ingredienti per una nuova puntata della primavera araba egiziana.
La ribellione più romantica è quella in corso in Turchia. Piazza Taksim si è sollevata all’approssimarsi dell’ennesimo mega-progetto edilizio ad Instanbul che, se realizzato, cancellerà uno dei pochi parchi rimasti nella città turca. Altri 600 alberi sacrificati al progresso. Un’ulteriore area verde mortificata nel nome del «capitalislam». Forse addirittura una delle colate di cemento di minore entità, se paragonata a diversi progetti in itinere per la costruzione di altre gigantesche moschee, canali artificiali, aeroporti. Ma il popolo si è stufato di subire passivamente l’autorità del primo ministro Recep Tayyip Erdogan. Se da un lato, sotto la sua guida, la Turchia ha fatto registrare in questi anni la migliore perfomance economica della sua storia, dall’altro in Anatolia si stanno riaffacciando i fantasmi dell’integralismo islamico, quello che comporta regressioni sul profilo dei diritti civili. Tre esempi di provvedimenti discutibili già approvati dal parlamento: reintroduzione del velo femminile negli uffici pubblici, divieto di vendita degli alcolici dalle 22 alle 6, l’istituzione di un Ministero per gli Affari religiosi per i musulmani. Evidentemente, il popolo ha scelto di non assistere passivamente alla devastazione del proprio territorio e della propria libertà. Pacificamente uomini, donne, anziani, bambini si sono asserragliati a Gezi Park e in piazza Taksim. Tantissimi giovani. Simbolicamente, la battaglia per i 600 alberi ha assunto un’importanza enorme. Erdogan ha scelto il pugno di ferro contro i manifestanti e la polizia esegue gli ordini con spietata crudeltà. Il suo obiettivo è modificare la costituzione, farsi eleggere presidente e diventare l’autentico sultano di Turchia. Nel nome dell’islam. C’è la sensazione che non abbia fatto bene i suoi calcoli. L’intensità delle proteste non si è piegata di fronte alla violenza dello Stato. La ribellione iniziata a Gezi Park è stata la classica goccia che ha fatto traboccare il vaso. Il popolo di piazza Taksim ha dimostrato un coraggio e una forza d’animo oramai sconosciuti agli occidentali. Per il momento, Gezi Park non si tocca. Ci si prepara ad una fase di stallo in vista di nuovi, incandescenti sviluppi; poiché Erdogan non rinuncerà al suo piano e il popolo non si prostrerà alla volontà del capo in cambio di qualche punto percentuale in più del prodotto interno lordo.
Chissà se la forza vitale delle proteste del popolo in Stati così grandi ed influenti si propagherà ulteriormente contagiando altre realtà decisamente assopite, come quella degli stati occidentali ma non solo. Non si tratta mica di rivoluzione. Ma di battaglie per l’ambiente, per la giustizia sociale e per limitare la prepotenza e il menefreghismo di gran parte dei governanti.
Dario Dario…purtroppo non condivido la tua visione romantica delle proteste dei “giovani” popoli in via di sviluppo…
Il grande impatto mediatico di queste proteste (a partire da quelle del 2011) è dato dalla facilità di diffondere l’indignazione e aggregare la protesta attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di riprodurli e diffonderli con le nuove tecnologie, ma si rivelano a mio avviso proteste prive di alcuna spinta innovativa di fondo. Si appellano ad un anacronistico ed inesistente senso di collettività (vedi i vari occupy) e a valori come ambiente e giustizia sociale intesi in maniera semplicistica come diritti universali che i cattivi vogliono sottrarre al popolo.
Purtroppo le sfide della modernità sono un po’ più complesse di così.
Paesi come Brasile e Turchia le stanno affrontando piuttosto bene a livello globale e oltre a qualche recente misura impopolare e uno spropositato ricorso alla forza (lascio da parte la corruzione contro la quale nessuno conosce ricette) non vedo ragioni di fondo tanto forti che possano arrivare a spingere i loro popoli a delegittimarli. Tant’è che la maggior parte dei brasiliani pare sia a favore dei Giochi e il popolo turco sia abbastanza compatto attorno al suo governo.
Per di più, una rivoluzione fatta con un passaparola di 140 caratteri e priva di un forte e solido pensiero dietro non penso possa portare a niente di migliore di quello che c’è già e rischia invece (e qui concordo con Erdogan) di portare più danni che benefici. L’esperienza egiziana è sotto gli occhi di tutti e non dovrebbero stupire le reazioni – riprovevoli ma pur sempre razionali e ampiamente prevedibili – degli Stati.
La massa di internet (non me ne vogliano Grillo e Casaleggio) non è una massa critica, anzi, asciuga al minimo la comunicazione e con essa lo spirito critico. La gente va in piazza a protestare ora come allora, con la differenza però che non ha letto Gramsci o Marx (sempre che sia mai servito a qualcosa per vincere le rivoluzioni), ma qualche invettiva o analisi dietrologica di un qualche blogger che s’improvvisa opinion leader..e dopo di ciò?
Dario Dario…purtroppo non condivido la tua visione romantica delle proteste dei “giovani” popoli in via di sviluppo…
Il grande impatto mediatico di queste proteste (a partire da quelle del 2011) è dato dalla facilità di diffondere l’indignazione e aggregare la protesta attraverso i nuovi mezzi di comunicazione e di riprodurli e diffonderli con le nuove tecnologie, ma si rivelano a mio avviso proteste prive di alcuna spinta innovativa di fondo. Si appellano ad un anacronistico ed inesistente senso di collettività (vedi i vari occupy) e a valori come ambiente e giustizia sociale intesi in maniera semplicistica come diritti universali che i cattivi vogliono sottrarre al popolo.
Purtroppo le sfide della modernità sono un po’ più complesse di così.
Paesi come Brasile e Turchia le stanno affrontando piuttosto bene a livello globale e oltre a qualche recente misura impopolare e uno spropositato ricorso alla forza (lascio da parte la corruzione contro la quale nessuno conosce ricette) non vedo ragioni di fondo tanto forti che possano arrivare a spingere i loro popoli a delegittimarli. Tant’è che la maggior parte dei brasiliani pare sia a favore dei Giochi e il popolo turco sia abbastanza compatto attorno al suo governo.
Per di più, una rivoluzione fatta con un passaparola di 140 caratteri e priva di un forte e solido pensiero dietro non penso possa portare a niente di migliore di quello che c’è già e rischia invece (e qui concordo con Erdogan) di portare più danni che benefici. L’esperienza egiziana è sotto gli occhi di tutti e non dovrebbero stupire le reazioni – riprovevoli ma pur sempre razionali e ampiamente prevedibili – degli Stati.
La massa di internet (non me ne vogliano Grillo e Casaleggio) non è una massa critica, anzi, asciuga al minimo la comunicazione e con essa lo spirito critico. La gente va in piazza a protestare ora come allora, con la differenza però che non ha letto Gramsci o Marx (sempre che sia mai servito a qualcosa per vincere le rivoluzioni), ma qualche invettiva o analisi dietrologica di un qualche blogger che s’improvvisa opinion leader..e dopo di ciò?
L’ambiente e la giustizia sociale non sono valori che possono esseri intesi in maniera semplicistica: si rispettano oppure no. Non c’è romanticismo in queste proteste, ma concreto malessere (brasile) e frustrazione della libertà (turchia, vedi le centinaia di giornalisti arrestati).
Brasile:la popolarità della Rousseff è ai minimi storici per un presidente nel post dittatura e l’organizzazione dei mondiali 2014, che stanno costando in proporzione il quadruplo che altrove (per di più solo di soldi pubblici senza privati che investono come avevano promesso), sta facendo indignare sempre più la popolazione. milioni di persone in piazza in tutte la città da un mesetto non sono roba da smanettoni di twitter e ipod (o ipad? boh, io ho ancora il vecchio nokia!).
Turchia: erdogan conserva popolarità in gran parte nelle campagne. ma, come molti analisti stanno scrivendo in questi giorni, rappresenta un filone del fallimento del tentativo di inserire nuovamente la religione nello Stato, barattata con uno sviluppo economico senza precedenti li, è vero, ma a prezzi troppo alti in termini di libertà. e grandi opere inutili.
In generale, queste proteste paiono senza capo nè coda perchè sono piuttosto rivendicazioni che movimenti organizzati,sono proprio disinteressati al potere, ma hanno le idee chiare su ciò che pretendono.
E, sull’Egitto, permettetemi di darmi delle arie per aver scritto l’articolo il 29 giugno prevedendo una nuova primavera araba! vabbè, non è che ci volesse la sfera di cristallo eh
c’è protesta e protesta per manifestare il proprio malessere: o ti attieni alle regole democratiche e manifesti pacificamente oppure sei pronto a fare la rivoluzione. Non penso che in Brasile e in Turchia siano disposti ad arrivare a tanto visto i progressi economici, sociali e civili dei rispettivi governi. L’unico è l’Egitto che la rivoluzione l’ha iniziata già nel 2011 e ancora si trova in mezzo al caos più totale.
Ma il punto mio era, che senso hanno queste proteste se, come dici tu “paiono senza capo nè coda perchè sono piuttosto rivendicazioni che movimenti organizzati,sono proprio disinteressati al potere, ma hanno le idee chiare su ciò che pretendono”? Che senso ha rivendicare (anche in maniera violenta) senza essere disposti a fare o ad organizzarsi? mi sembra come tirare dei pugni al vento, o peggio, tirare dei pugni a colui che poi dovrebbe accogliere le istanze della protesta… purtroppo, mi sembrano proteste molto poco costruttive scaturite da un rinnovato senso di collettività permesso dalle nuove tecnologie, ma sterile ed astratto nei propositi e nei mezzi…
Non c’è rivoluzione senza partito, non c’è politica senza partito, questo è chiaro