In Amenas: la posta in palio per l’Algeria
L’attacco terroristico all’impianto a gas Tigantourine presso la città di In Amenas (16-19 gennaio 2013) rischia di lasciare pesanti strascichi nel paese nordafricano oltre alla tragica morte di 60 ostaggi. In primo luogo, resta da verificare se l’attentato sia limitato ad un atto di ritorsione contro l’intervento militare francese nel confinante Mali o se rappresenti la prima di altre operazioni volte a destabilizzare il paese e la già precaria regione con il rischio di una guerra civile. In secondo luogo, a prescindere che si tratti o meno di un episodio isolato, l’attentato costituisce un pericoloso precedente per l’Algeria che potrebbe provocare gravi ricadute economiche e, indirettamente, politiche per il paese.
Fin dalla sua indipendenza, l’Algeria è sempre stato un importante ed affidabile partner energetico delle economie occidentali. Le forniture di petrolio e gas non sono di fatto mai state usate come arma di ritorsione politica e non sono venute meno nemmeno durante la guerra civile degli anni Novanta, periodo nel quale, al contrario, più di 40 compagnie continuarono ad operare nel paese consentendogli di raddoppiare il proprio output petrolifero. Il recente attentato rappresenta quindi un grosso smacco reputazionale per l’Algeria che rischia di comprometterne uno dei cardini della politica economico-commerciale – l’affidabilità, per l’appunto – complicando lo sviluppo dell’industria energetica del paese e, di conseguenza, la sua situazione economica.
Le entrate dello Stato algerino dipendono massivamente (circa il 60% secondo i dati CIA) dall’industria oil&gas, che copre circa il 98% dell’export del paese. Queste entrate hanno consentito di dare un certo grado di stabilità all’economia algerina ed all’apparato statale riuscendo ad accumulare riserve di valute estere per 173 miliardi di dollari ed a costituire un ampio fondo di stabilizzazione mantenendo, allo stesso tempo, un debito estero estremamente basso (circa il 2%). È grazie a queste miliardarie entrate che lo Stato algerino, così come altri Stati detti redditieri, riesce a sopperire alla carenza interna di legittimità democratica ed a mantenere nel paese un certo grado di pace sociale mascherando le inuguaglianze, il malgoverno e la corruzione. Così, allo scoppiare delle rivolte arabe in Nord Africa nel 2011, l’Algeria ha potuto rispondere abbastanza agevolmente concedendo, sul piano politico, la fine dello stato di emergenza che perdurava da 19 anni e, su quello economico, un aumento della spesa pubblica di oltre 23 miliardi di dollari con cui si sono potuti incrementare i salari e offrire generosi sussidi sia sui prezzi dei beni alimentari (il cui aumento era tra le cause scatenanti delle proteste) che ai giovani disoccupati uscendone, quindi, sostanzialmente indenne.
Al contrario, per lo Stato algerino l’attentato ad In Amenas rappresenta, quasi paradossalmente, una minaccia addirittura più grande delle proteste del 2011. Attaccando l’impianto a gas operato dalla britannica BP, la norvegese Statoil e la compagnia di Stato Sonatrach, i terroristi hanno intaccato direttamente la principale fonte di reddito dello Stato minando, al contempo, la sua reputazione di fornitore affidabile. Da una parte, la chiusura di Tigantourine sta causando immediate gravose perdite per lo Stato, stimate da Sonatrach nell’ordine di 11 milioni di dollari al giorno. L’impianto produce 9 miliardi di metri cubi all’anno e 60 mila barili al giorno di condensato, circa il 12% dell’intera produzione algerina ed il 18% delle sue esportazioni metanifere che portano nelle tasche dello Stato 3,9 miliardi di dollari all’anno. Si prevede che la produzione dall’impianto venga a breve parzialmente riavviata, tuttavia non dovrebbe tornare a pieno regime prima di un mese. Dall’altra, l’attentato – definito “senza precedenti” – comporta l’inevitabile aumento dei costi di produzione nel paese (per la sicurezza – Eni, Shell, ConocoPhillips, Statoil, BP hanno già preso misure in tal senso – e di assicurazione) con la conseguente perdita di attrattività del paese nei confronti degli investitori stranieri.
Il paese rischia così di vedersi ridotta la principale fonte di reddito in un momento in cui il prezzo di breakeven algerino del petrolio (detto anche “di equilibrio”; soglia oltre la quale il governo è in grado di coprire la spesa pubblica con i profitti petroliferi) era, secondo il Fondo Monetario Internazionale, già a novembre di 121 dollari al barili, superiore quindi ai circa 112 a cui il greggio viene scambiato sui mercati internazionali da inizio anno. I rischi per il paese sono che il Governo di Abdelaziz Bouteflika non solo non riesca a tener fede all’ambizioso programma da 261 miliardi di dollari di investimenti con il quale intende creare un’economia più sana e diversificata, ma che incontri delle difficoltà nel mantenere gli attuali livelli di spesa pubblica (il paese importa ogni anno 6 tonnellate di grano) essenziali, come detto, per assicurare la stabilità interna.
Tutto ciò avviene in un momento non felice per l’industria energetica algerina. L’Algeria è il nono produttore mondiale di gas nonché il quinto paese per esportazioni, gode inoltre di un vasto potenziale inesplorato di idrocarburi, eppure l’industria energetica del paese è tutt’altro che nel suo pieno splendore. Negli ultimi vent’anni non vi sono state significative scoperte di petrolio e gas, ma, al contrario, alcuni importanti giacimenti sono entrati in fase di declino. Le condizioni per operare nel paese sono nel frattempo andate via via peggiorando. Le compagnie petrolifere devono, di fatto, scontrarsi con una burocrazia soffocante mentre il riavvampare del nazionalismo delle risorse porta Sonatrach, presente nella maggior parte delle attività petrolifere, ad assumere comportamenti sempre più prepotenti. Nel 2006, inoltre, è entrata in vigore una nuova legge sugli idrocarburi che ha inasprito le condizioni fiscali ed operative sulle attività upstream nel paese andando a gravare sui costi delle compagnie. Il paese ha così progressivamente perso di attrattività ed il poco interesse suscitato dalle ultime gare (bid round) per l’assegnazione di blocchi d’esplorazione ne è conferma. È molto probabile che, per evitare un clamoroso fiasco alla luce degli avvenimenti di In Amenas, il governo decida di annullare il prossimo bid round in programma nei prossimi mesi.
In un tentativo di remare controcorrente, il 21 gennaio, all’indomani dell’attentato, il parlamento algerino ha prontamente approvato in via definitiva la nuova legge sugli idrocarburi che, tra i vari emendamenti, prevede una tassazione sul fatturato e non più sui profitti, incentivi fiscali alla ricerca e sviluppo di risorse non convenzionali e giacimenti di piccole dimensioni, la sostituzione della gravosa tassa sugli extra-profitti con una “tassa supplementare sui risultati”. Un tentativo di contrastare la tendenza in calo degli investimenti che rischia tuttavia di risultare velleitario essendo giunto con due o tre anni di ritardo, in un contesto interno e regionale complesso e scoraggiante, in un momento di grande interesse internazionale per le risorse di competitor diretti come l’Iraq o i paesi dell’Africa Orientale.
A distanza di due anni dall’esplodere delle rivendicazioni arabe di condizioni economiche e sociali migliori, la situazione nella regione resta tesa ed altamente incerta. L’attentato di In Amenas ci mostra come sia impossibile ed fortemente erroneo considerare le dinamiche interne ad un paese svincolate da quelle del suo vicino e dell’intera regione. Allo stesso modo, le dinamiche economiche da quelle politiche, e viceversa. Nel mezzo, nel bene e nel male, la crucialità dell’industria energetica.
Articolo comparso originariamente su AGI Energia mercoledì 30 gennaio 2013