Quello che le primarie (non) dicono
Il giornalista e l'elettore occasionale guardano le facce, l'elettore adulto guarda al programma e valuta il contesto. Se le primarie del Partito Democratico si risolvessero nello scontro di personalita' tra Bersani, Renzi e Vendola sarebbero ben poca cosa. E invece, nell'anno di grazia 2012, la terza edizione delle elezioni primarie nazionali del centro-sinistra marca il passaggio all'età adulta di questo strumento: quello della competizione reale fra tre candidati, ciascuno con buone possibilità di vittoria.
Forse per la prima volta dalla loro istituzione, le primarie non hanno un vincitore designato. L'evidente affanno della leadership attuale del PD ne è la prova inequivocabile: nel bene o nel male, candidature forti come quelle di Matteo Renzi e di Nichi Vendola sono uno spartiacque per un partito storicamente abituato a scegliere il proprio gruppo dirigente all'interno di qualche sala congressi. Se nel 2012 i coltelli volano alla luce del sole in un dibattito pubblico, solo l'avversione politica o la mancanza di parecchie diottrine impediscono di vedere la profonda novita' di queste elezioni. Sarà un grande giorno quello in cui un partito nato con una “vocazione maggioritaria” smetterà di percepire una pubblica competizione interna come una minaccia esistenziale e consegnerà al silenzio gli eterni avvocati delle scissioni perse, mai avvenute nonostante le numerose sconfitte subite negli anni dai candidati “interni” del PD in primarie a livello locale.
Detto questo, proprio perché queste primarie sono una competizione reale, portano con sé alternative politiche reali. Pur degno di nota, quello del ricambio generazionale è il tema più banale e fuorviante. Il punto essenziale non sta nell'età anagrafica dei candidati e degli aspiranti dirigenti, bensì nei gruppi sociali ed economici che intendono rappresentare e nelle politiche che propongono. Ed è qui che Bersani, Renzi e Vendola si pongono in maniera sostanzialmente diversa fra loro.
Bersani e Vendola condividono un target elettorale in principio simile, l'elettorato tradizionale della sinistra italiana: lavoratori dipendenti, pensionati sindacalizzati, pubblico impiego, e disoccupati. In virtù della sua passata esperienza di governo, Bersani tenta un difficoltoso approccio al vasto mondo della piccola impresa, mentre l'appeal ideologico e carismatico di Vendola è più adatto per rivolgersi verso i giovani precari. Con la forza della novità e della sua spavalderia, Renzi ha un elettorato potenzialmente più fluido, trasversale alle classi sociali, benché la sua idea di “big(ger) society” vada sostanzialmente più incontro agli interessi di professionisti e lavoratori più qualificati e benestanti che alla casalinga di Voghera.
La scelta dell'elettorato di riferimento si riflette nella proposta politica dei candidati. Per semplificare brutalmente, Bersani è l'alfiere di una linea social-democratica classica di stampo europeo, Vendola di quella della nuova sinistra (post)comunista, mentre Renzi è l'erede della sinistra liberale (sic, “sinistra”), quelli che si chiamavano “miglioristi” nel PCI e “corrente Morando” nei DS.
I temi del lavoro e del welfare sono un indicatore importante – non esaustivo – di questa differenza. Laddove per Vendola il ripristino di un diritto del lavoro centrato sulla protezione del posto di lavoro e welfare universalistico sono conditio sine qua non, Bersani conosce bene i limiti di fattibilità di un tale approccio e si propone come mediatore di una “liberalizzazione controllata”, come ha dimostrato ampiamente durante l'iter parlamentare della riforma Fornero. Il riferimento di Renzi al welfare come “investimento sociale” e alla flexicurity è un'iniezione anglosassone nel gergo PD: idee che circolano già da un decennio in Europa, per la verità, ma che non hanno mai trovato un traghettatore credibile nella sinistra italiana. A Renzi tocca mostrare se sarà in grado di sostenere il peso dell'innovazione: di principio, l'attaccamento all'esistente favorisce molto più i primi due candidati.
C'è infine un ultimo punto che in prospettiva deciderà davvero le sorti del PD come partito di governo: come ristabilire la rottura democratica che ha travolto gli ultimi venti anni di questo Paese? In altre parole, come ricostruire il rapporto di legittimità tra cittadini e sistema politico? Di fronte alla sfida concreta posta dal Movimento 5 Stelle, i candidati alle primarie sono sospesi su un filo sottilissimo.
Nella gestione delle primarie stesse, Bersani ha già dimostrato tutta la sua allergia all'allargamento incontrollato (e incontrollabile) della partecipazione dei cittadini alle decisioni politiche: Bersani fa affidamento alla capacità dei tradizionali corpi intermedi – sindacati, associazioni imprenditoriali – nel mediare il disagio della società e trasformarlo in compromesso politico. Un'idea altamente rischiosa nell'era della rovinosa sfiducia generalizzata che travolge ogni istituzione prestabilita. Con un approccio nettamente più pluralistico, Renzi si fa interprete di un'apertura verso i nuovi rivoli della società organizzata, in esplicita opposizione ai vecchi corpi intermedi: rimane però il sospetto che Renzi abbia colto l'elemento populistico dell'idea del M5 senza essere pronto a farsi carico delle innovazioni di democrazia partecipata che Grillo sta introducendo in Italia. L'esperienza delle Fabbriche di Nichi conferiscono forse un vantaggio a Vendola in questo senso, pur con il limite del settarismo strisciante di SEL: un fattore che spiega perché sia divenuto Grillo, e non Vendola, il punto di attrazione del malcontento sociale.
Le primarie del 25 novembre non saranno lo spartiacque della storia politica italiana. Ma nel loro incedere disordinato e apparentemente inconcludente, ci consegnano una preziosa fonte per riflettere sulle possibili vie d'uscita dalla crisi democratica oltre che economica che attraversa l'Italia. Già soltanto per questo le primarie meriterebbero ben più rispetto di quanto il PD sia riuscito a trasmettere loro nell'immaginario popolare.