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Scritto da nel Numero 94 - 1 Novembre 2012, Politica | 0 commenti

Per un'alleanza riformista fra il merito e il bisogno

L'esigenza che oggi avvertiamo di individuare i soggetti sociali – i sostenitori e gli elettori – del riformismo moderno, questo tema che oggi discutiamo, segue e non precede l'iniziativa politica. Una iniziativa politica riformista c'è già stata in questi anni prima che potessimo porci il problema della parte di società che potremmo rappresentare. In un certo senso il riformismo di oggi è il fare e il filosofare sociale, istituzionale, culturale e civile della riconquistata autonomia socialista, della ritrovata identità autonoma del socialismo italiano. Nel 1976, nella sua prima intervista da segretario del partito, ad un Giampaolo Pansa che gli chiedeva intenti, spiegazioni e dettagli della traiettoria possibile di un partito appena sconfitto nelle elezioni politiche e marginale nel determinare in quel momento gli equlibri politici, Craxi rispose: “Primum vivere”. Oggi il partito è vivo, forse più vivo di ogni altro partito italiano; è dunque giusto che senza sottrarsi agli obblighi e alle opportunità della politica, senza sfuggire alla nenniana politique d'abord, si ponga il problema di identificare
meglio i suoi referenti sociali e le sue opzioni culturali. Qualcosa del genere, è vero, facemmo già con il Progetto socialista alla vigilia di Torino. Ma allora discutevamo di rifondazione, oggi possiamo discutere di sviluppo del socialismo italiano e della sua iniziativa. Insomma, è venuto anche per noi il momento, dopo il primum vivere, del deinde philosophari. Cercherò di procedere per approssimazioni successive rispondendo alla domanda: “Chi sono i possibili soggetti sociali del riformismo moderno?”. La prima risposta che mi viene in mente è di guardare nella nostra storia, di chiedersi chi sono stati i riformisti di ieri. Il PSI nacque e crebbe come partito di lavoratori manuali, di proletari di ogni tipo, e di ceto medio intellettuale e progressista del Nord e del Sud Italia. Insieme questi socialisti intendevano definire, rispetto alle contese interne alla borghesia, un nuovo terreno di azione politica, altre speranze, altre volontà, altri cambiamenti.
Il PSI nacque come partito di popolo e come partito colto ed espresse la fusione dei suoi elementi costitutivi ponendo i suoi fini di emancipazione economica e sociale sul terreno democratico e i fini di una vera giustizia sul terreno libertario. Nacque associando, federando, affratellando uomini e donne, singoli e gruppi, non intorno a dogmi né a rigide organizzazioni, ma intorno alla povera gente, a ideali e programmi illuminati dalla ragione critica e dalla fede in un avvenire migliore. Nacque perché Turati ed altri con lui lo fecero nascere. Se avessero atteso il filosofo Labriola non sarebbe nato mai.
Nacque e si formò a cavallo di due secoli nel vivo delle temperie sociali e politiche, non per realizzare il piano prestabilito di un nuovo mondo, ma per riparare torti e perché venissero superate le condizioni che potevano perpetuare i torti che erano sotto gli occhi di chiunque volesse vedere. Nacque come sezione italiana dell'Internazionale socialista nel concerto dei partiti socialisti, socialdemocratici e laburisti europei, concerto assai poco intonato perché attraversato anch'esso da esperienze diverse, da insegnamenti diversi. Più solida e coerente era e rimase a lungo la scuola marxista nella quale pure sono riconoscibili concetti filoni financo rivali. Ma il marxismo non è stato né l'unica dottrina né l'esperienza dominante del socialismo europeo occidentale. Quando, sul terreno marxista e secondo proprie esigenze, il leninismo, separatosi dalla Seconda Internazionale, lottò per definire un modello di partito, di Stato e di società autonomi dal capitalismo – come dice Berlinguer – e dalle democrazie occidentali, approdò alla edificazione della forma più moderna di dispotismo. Il riformismo storico dunque nasce dall'incontro tra le attese e le speranze del mondo del lavoro e le idee, i progetti di uomini e di donne che provenivano dalle fila stesse della borghesia. E il riformismo moderno? Qual'è la continuità e qual'è la novità?

La classe operaia
Il lavoro di ricerca e di analisi avviato da Mondoperaio sul tema della fine della centralità operaia, le elaborazioni successive del partito e di singoli studiosi, le stesse tre relazioni di stamane di Alberoni, di Gallino, di Martinelli segnalano alcuni fatti, per la verità non nuovi ma non ancora posti nella giusta luce da un punto di vista politico e culturale generale. Quali sono questi fatti?
1) Il 50% della forza lavoro italiana è impegnata nei servizi, nel cosiddetto terziario. E siamo ancora sotto la media europea, che è del 55-60%. Dunque la quota di lavoratori del terziario è destinata a crescere ancora e soprattutto questo mondo, in una Italia ancora poco omogenea, è destinato a divenire più organizzato e più omogeneo.
2) All'interno stesso della classe operaia, o meglio del mondo del lavoro, e soprattutto nelle grandi fabbriche e nei complessi industriali più avanzati, è in netta crescita, dal punto di vista dei ruoli di coordinamento, degli spazi di autonomia e di responsabilità, la categoria degli operai specializzati, dei quadri e dei tecnici. Con tutta probabilità il processo di automazione e di robotizzazione che ha cominciato ad investire le grandi fabbriche moltiplicherà numeri e ruoli dei quadri.
3) Il sindacato italiano attraversa simultaneamente una serie preoccupante di crisi. L'area della sua rappresentanza sociale si è contratta anziché estendersi, vuoi a causa del mancato processo di democratizzazione interna; vuoi a causa del crescere di oggettive differenze professionali; vuoi a causa del persistere di spinte movimentistiche e settarie; vuoi infine a causa dell'appesantimento burocratico e delle costanti interferenze partitiche.
4) Gli ideali socialisti, la somma di esperienze maturate in una storia secolare e spesso – in Europa e anche in Italia- in ruoli di maggioranza e di governo nazionale e locale, la sempre più intensa coabitazione di democrazia e di socialismo, hanno fatto evolvere il socialismo da dottrina di emancipazione di una classe a un insieme di tentativi graduali e graduati – non senza arretramenti, errori e contraddizioni – di dar corpo a un programma di governo e di emancipazione dell'intera società.
In democrazia se si vuole governare l'intera società occorre il consenso della maggioranza e dunque la maggioranza riformista va conquistata guardando al moderno mondo del lavoro ed anche a ciò che sta fuori di esso ma che non gli è ostile, non gli è antagonista. Oltretutto le nostre possibilità, le nostre chanches, non possono decollare a partire dalla rappresentanza della maggioranza della classe operaia, e anche se la maggioranza della classe operaia fosse socialista ciò non basterebbe a costituire una maggioranza nel paese, come del resto sanno benissimo i compagni comunisti.
Ciò detto sarebbe un vero errore politico quello di ignorare le possibilità reali di una espansione e di un irrobustimento della presenza socialista nel mondo del lavoro. Gli orientamenti politici della classe operaia torinese e milanese rilevati da due diversi sondaggi del CESPE e del CESEC hanno rivelato la propensione riformista della grande maggioranza della classe operaia italiana. Questo orientamento liquida come reperti storici (anche se hanno vent'anni) i kabulisti, gli assemblearisti, i movimentisti, i settari e i faziosi che prolungano sulla crisi del sindacato l'ombra risentita delle loro sconfitte. Du
nque ricapitoliamo le osservazioni più importanti: 1) la rivoluzione tecnologica e dei servizi riduce il peso quantitativo e qualitativo della classe operaia; 2) la maggioranza della classe operaia ha ormai assunto un chiaro orientamento democratico e riformista; 3) la maggioranza della classe operaia non vota per il PSI.
Dunque il problema politico del riformismo moderno, la sua possibilità di divenire maggioranza nel paese, dipende per un verso dall'evoluzione diciamo occidentale del PCI, e per un altro verso – la parte che più ci riguarda e forse anche la più importante – questa possibilità dipende dalla capacità nostra, di socialisti, di definire un programma e una politica che parlino alla maggioranza riformista che sta tra la classe operaia che noi rappresentiamo ed il restante 70% della società che non rappresentiamo adeguatamente o che abbiamo appena cominciato a conoscere.
Cos'altro significa partito del programma e del movimento se non che la nostra proposta e la nostra iniziativa tagliano trasversalmente la sociologia pietrificata delle classi che abbiamo ereditato dal marxismo? La nostra proposta va nella direzione di costituire una nuova rappresentanza socialista a partire dalla nuova stratificazione sociale, quella che stamane è stata qui descritta.
Noi non ci rivolgiamo alla classe operaia in quanto opposta alla classe proprietaria; e non ci rivolgiamo alle varie articolazioni del ceto medio per enuclearne alcune parti o frazioni in opposizione ad altre parti o frazioni.

La rivoluzione che c'è
Noi non ci siamo posti il compito di produrre una rivoluzione che non c'è, ma quello di rappresentare politicamente e di governare con l'efficacia della politica democratica la rivoluzione che è in atto, il cambiamento che è in atto.
Ora per governare politicamente qualcosa occorre prima conoscerla, padroneggiarla concettualmente. La descrizione del contesto internazionale, il problema delle istituzioni pubbliche, il problema dello sviluppo economico e delle sue conseguenze sociali così come emergono da queste quattro giornate socialiste di studio, di analisi, di dibattito, di proposta è innanzitutto una acquisizione di conoscenza: una descrizione delle condizioni di possibilità del nostro agire politico. Come abbiamo più volte detto e come si conferma anche in questa congiuntura politica, noi siamo il partito del movimento e del programma.
La nostra proposta si rivolge innanzitutto a chi può agire, ai soggetti sociali oggi capaci di autonomia e di decisione, di nuove decisioni, di scelte e di movimento o libero o, in diversa misura, necessitato. Vi sono soggetti sociali così imprigionati ed identificati con la forza delle organizzazioni cui hanno dato vita, così paralizzati dalla immobilità dei loro referenti o ispiratori culturali, ed anche soggetti sociali così interessati al puro e semplice perpetuarsi dell'ordine e del disordine esistenti, da essere impermeabili alle nostre ragioni e anche a tutte le nostre speranze di un dialogo per il meglio.
E vi sono anche soggetti sociali per i quali noi siamo -senza che noi lo si voglia- i nuovi gattopardi: l'assicurazione che qualcosa cambierà purchè tutto resti uguale. Noi li possiamo assicurare che si sbagliano.
Ma vi sono milioni di persone -persona è appunto l'unità irripetibile di individuo, di cultura, di socialità e di rappresentazione- cui naturalmente si rivolge la nostra proposta. Chi sono? Penso che i soggetti sociali del riformismo siano tutti coloro che sono posti nelle condizioni determinate dal bisogno e tutti gli individui o le persone possessori di un merito. Quale che sia il bisogno e quale che sia il merito, soltanto chi può agire perché vuole o perché deve è destinatario delle azioni di riforma e di cambiamento, perché partecipa alla rivoluzione in atto, partecipa alle diverse rivoluzioni che si vanno compiendo o preparando alle soglie del 2000.
Il senso dell'alleanza riformista e socialista è e non può non essere nella sua essenza altro se non questo: l'alleanza tra il merito e il bisogno. Le donne e gli uomini di merito, di talento, di capacità, sono le persone utili a sé e utili agli altri, coloro che progrediscono e fanno progredire un insieme o un'intera società con il loro lavoro, con la loro immaginazione, con la loro creatività, con il produrre più conoscenze: sono coloro che possono agire. Le donne e gli uomini immersi nel bisogno sono le persone che non sono poste in grado di essere utili a sé e agli altri, coloro che sono emarginati o dal lavoro o dalla conoscenza o dagli affetti o dalla salute: sono coloro che devono agire. Senza tener ferma questa alleanza, questa duplicità di destinatari, il riformismo moderno rischierebbe di degenerare in opportunismo, o di rifluire nel classico massimalismo.
Ancora, se separiamo il merito dal bisogno, il riformismo diviene o tecnocrazia o assistenzialismo; se invece uniamo o alleiamo il merito ed il bisogno, il riformismo moderno può produrre una svolta all'altezza dei tempi, può interpretare il tempo, può governare il cambiamento.
Ho usato volutamente delle categorie povere, delle categorie semplici. L'eclissi del marxismo può aprire la strada ad una restaurazione borghese e ad una ribellione anarchica o corporativa. Il solo modo di evitare da sinistra entrambi i corni del dilemma della tecnocrazia e dell'assistenzialismo mi sembra risiedere nell'umiltà di ricominciare con l'empiria, con le categorie povere di storia culturale: l'individuo; l'individuo che può o che deve agire; gli individui e le persone dotate di merito o sottoposte al bisogno; la natura da cui non dobbiamo più difenderci ma che dobbiamo difendere da noi stessi; le tecniche che possono consentirci la cura dell'umanità e la cura del mondo naturale; la cura dei bambini e delle madri e degli anziani; la nostra salute.

Chi può agire
Chi sono gli individui o le persone di merito ? Chi può agire nella società contemporanea ? Certo, può agire chi ha, il ricco, il ricco di sempre, il rentier o il capitalista: non è a lui che ci rivolgiamo giacchè la massima delle sue azioni sarà pur sempre ispirata all'idea di conservare le condizioni del suo privilegio, e anziché aiutare a governare il cambiamento proporrà di governare il passato e di impedire che il presente partorisca il nuovo. Ma la società contemporanea, la nuova stratificazione sociale, la rivoluzione prodotta dalla innovazione tecnologica, l'innovazione scientifica e le applicazioni industriali, il processo di acculturazione che ha investito milioni di individui, la diffusione del sapere e delle informazioni, l'universo della comunicazione e della conoscenza, la disponibilità della società moderna ad accogliere -dall'artigianato all'elettronica- l'abbinamento di produttività e di creatività, hanno creato una nuova multiforme figura sociale: l'individuo che detiene un sapere, l'individuo che conosce delle tecniche, delle procedure, l'individuo che ha una professionalità, l'individuo che governa i meccanismi della riproduzione sociale e della produzione industriale, la trasmissione e l'innovazione della cultura, delle conoscenze, delle mode e dei costumi, l'individuo che padroneggia la sua giornata, la sua settimana, il suo tempo libero, la sua istruzione e quella dei suoi figli, le sue vacanze e i suoi consumi: la persona che non si riduce alle opere ma che accetta di essere misurato anche dalle sue opere e dai loro effetti.
Nel 1982 metà della forza lavoro degli Stati Uniti
è impiegata nel mondo della comunicazione: nel mondo che rende materialmente e spiritualmente possibile la comunicazione quotidiana, di servizio o di produttività, creativa o ripetitiva del sapere circolante. L'universo delle comunicazioni, lo Stato rappresentativo, lo Stato spettacolo e la società dell'informazione aleggiano ormai anche in Italia. Ciò pone problemi diversi e nuovi di definizione di fini e di mezzi, problemi che il Partito socialista ha il merito di aver sollevato per primo, in quanto problemi del riformismo moderno, problemi attuali di una politica democratica di sinistra. Problemi di sviluppo e problemi di garanzie democratiche rispetto alle conseguenze dello sviluppo.
Come si garantisce il cittadino rispetto agli arbitri del potere dell'informazione ? Un potere il quale ha – più di ogni potere mitico, religioso o politico del passato- la facoltà di dar vita ad una realtà immaginaria che essendo il principale e più costante punto di riferimento generale nel villaggio globale cui la comunicazione elettronica ha ridotto il mondo appare ai più più reale, più importante, più significativa del loro vissuto quotidiano. Ancora, come si garantiscono il mondo del lavoro e i singoli cittadini di fronte alla rivoluzione elettronica ? L'elettronica tra le applicazioni industriali della scienza è ciò che più contiene di essenza umana, nel senso che essa – per così dire – assorbe il pensiero umano, lo riproduce e lo trasmette come energia mediante una coordinata di impulsi elettrici. Molti conoscono le conseguenze delle prime rivoluzioni industriali. Esse sono ben descritte dai classici del marxismo. Marx ed Engels riconobbero ad un tempo lo sprigionamento di formidabili energie creative, le energie messe in moto dal lavoro industriale e dal capitale, ma riconobbero anche le parallele alienazioni dal punto di vista della salute, della dignità individuale del contadino messo alla catena di montaggio, dello sradicamento umano e culturale. Mi domando se non si debba evitare che la rivoluzione elettronica insieme con le tante meraviglie dell'umano fare produca una analoga e forse più impietosa serie di conseguenze disumanizzanti. L'applicazione su vasta scala, a livello industriale e civile, nei servizi collettivi e per uso privato, dei ritrovati dell'elettronica è insieme urgente e necessaria, ma non è priva di aspetti problematici. Basti pensare alle conseguenze già visibili per esempio sui bambini della inondazione televisiva ed al relativo merchandising di giocattoli elettronici. Immagini, oggetti e giocattoli uguali in tutto il mondo, immagini, oggetti e giocattoli con i quali e per mezzo dei quali i nostri bambini ormai educati dalla televisione o socializzati dalla televisione assai più che dalla scuola, dalla famiglia e dalla strada, imparano a pensare. Ma allora ecco sorgere la domanda: chi osserva, chi usa, chi guida questo processo ? Non riguarda forse la politica democratica, la sua responsabilità, il processo che porta a formare e ad informare la sensibilità e l'intelligenza dei nostri bambini ? Non è del futuro che dobbiamo occuparci se vogliamo governare il cambiamento ? Ebbene, nella scuola fioriscono pochi garofani, ancora troppo pochi, ed è responsabilità di tutti noi questo ritardo, mentre tutti i partiti socialisti e socialdemocratici concentrano tanta parte del loro impegno su questo punto.

Chi deve agire
Parlando dei bambini ci siamo avvicinati al secondo grande soggetto del riformismo moderno, il mondo dei bisogni. Questo mondo cui si rivolge l'ipotesi riformista per rappresentarlo, per esprimerlo, per dargli soddisfazione, è il mondo degli emarginati di sempre e di oggi: è il mondo di coloro che devono agire per cambiare. Il mondo del bisogno non è una deamicisiana pappa del cuore. Le monete che tintinnano nelle tasche di Garrone che si avvia a far visita all'ospedale all'amico povero hanno un suono diverso dai sussurri e dalle grida che provengono dal mondo del bisogno. Come si definisce il mondo del bisogno ? Certo si possono enumerare per grandi categorie coloro che ne fanno parte. Lo faccio per necessità, ma mi scuso per questo repertorio che non ha lo scopo di suscitare pietà ma di suscitare verità. Penso ai carcerati, agli alcolizzati, ai tossicodipendenti, alla follia, ai malati, agli handicappati, agli anziani, ai minimi pensionabili senza una famiglia che se li prenda in cura, ai bambini appunto, alle donne ed agli uomini che sono soli e non vorrebbero essere soli, ai giovani ed alle ragazze che bussano al mercato del lavoro e non riescono a varcarne la soglia, che cercano una casa per sposarsi e devono rinviare il matrimonio, che sono esclusi dalla cultura e dal benessere.
Il mondo del bisogno somma le vecchie e le nuove povertà ma comprende anche altro, comprende anche povertà non economiche, povertà non di merito o di spirito. Esso ha in realtà un altro e solo un altro minimo comun denominatore, qualcosa che abbiamo smesso persino di nominare: il dolore. Non che altrove il dolore non ci sia, ma nel mondo del bisogno il dolore c'è sempre. Milton diceva: “Il dolore è miseria perfetta”, forse non è così ma certo il dolore è un compagno inseparabile della miseria.
Nella memoria del movimento operaio l'esperienza del dolore è la più frequente e, in un certo senso, è la più alta, soprattutto in quanto da essa scaturì anche l'esperienza della solidarietà. Dolore, solidarietà, liberazione: questa sequenza scandisce il ritmo delle lotte storiche del socialismo. Rispetto al suo passato, rispetto a quel dolore sociale, davvero i socialisti possono dire come il poeta:
“Ora ho trovato un senso e una misura: so che la pena è il sole della vita e che la gioia è nel guardare il cielo per caso, e riconoscere l'azzurro”.
Oggi probabilmente il dolore sociale non grida più come quando il Partito socialista sorse, ma a parte il fatto che talvolta grida ancora, i sussurri di oggi non sono meno dolorosi. Che fare?
Il punto più alto finora raggiunto dal riformismo è quello attinto dall'esperienza quarantennale di governo della socialdemocrazia svedese. Una parafrasi a volte ottimistica, a volte ironica, designava la cura che la socialdemocrazia intendeva prendersi di ogni individuo con il motto “dalla culla alla tomba”. Probabilmente non è estranea alla ancora recente sconfitta dei compagni svedesi l'eccessiva burocratizzazione imposta alla società per tener fede all'impegno di prendersi cura di tutti e di tutto dalla culla alla tomba. Eppure quello resta il programma più ardito che il socialismo democratico abbia sperimentato, ed i risultati non cessano di essere visibili.
Ha ancora un senso un programma del genere ? L'idea di proteggere le ragazze madri e la loro libera scelta tra l'aborto ed una gravidanza assistita; l'idea di mantenere a carico dello Stato i loro figli; l'idea che i bambini devono essere posti al riparo dalla violenza pratica -due milioni di casi di maltrattamenti denunciati in America e solo trentasettemila in Italia, i genitori italiani o sono più buoni o sono più bugiardi- e devono essere posti al riparo anche dallo spettacolo della violenza; che devono apprendere in modo libero e gratuito, aiutati a scegliere, ad essere liberi e forti e solidali; che l'intera organizzazione sanitaria di una società deve possedere nozioni e stimoli, in una parola una professionalità, concepita per solidarietà e non per lucro, non per le carriere, non per le clientele; l'idea che l'educazione è un processo permanente o ricorrente lungo tutta la vita e che va o
rganizzata in tal modo; l'idea che l'ambiente storico e naturale va protetto e valorizzato, fruito e non consumato; l'idea che i vecchi ci sono cari e sono utili se li lasciamo essere utili, se organizziamo la loro utilità; l'idea che il lavoro non è un dovere per tutti ed un diritto dal quale qualcuno è escluso ma è libero, garantito e meritocratico; in fondo anche l'idea che si può essere neutrali alla condizione di essere come sono gli svedesi, armati della propria sicurezza militare: il che, come la cronaca insegna, non è tuttavia bastato a metterli al riparo dall'improvvisa visita di un sottomarino.

Il welfare all'italiana

Non penso che dobbiamo copiare quel programma o tutte le sue idee ma credo fermamente che non ne possiamo abolire o trascurare l'ispirazione fondamentale se vogliamo animare il progetto di un riformismo moderno che tenga conto del merito e del bisogno, che si rivolga a chi ha bisogno ed a chi ha merito.
Ebbene, sotto questo profilo, sotto il profilo sociale, a che punto siamo in Italia ? Nei cinque anni che abbiamo alle spalle la spesa sociale è rimasta immobile. In rapporto al prodotto interno lordo l'Italia spende circa come l'Irlanda e l'Inghilterra, ma meno o molto meno di Francia, Olanda, Germania e Belgio.
E si tratta della sola spesa che riguarda l'assistenza, la sanità e la previdenza. I soli aumenti si registrano per interventi che meno propriamente vengono catalogati come “spesa sociale” e sono i trasferimenti di capitali dello Stato all'IRI, all'ENI, all'ENEL, nonché gli aumenti di capitale della GEPI, delle Ferrovie dello Stato, dell'Amministrazione delle Poste e Telecomunicazioni. In Italia l'industria di Stato ed il disservizio pubblico si mangiano gran parte delle possibilità di effettuare una politica sociale. A ciò si aggiunga il caos organizzativo, professionale, politico, amministrativo degli Istituti di previdenza o della organizzazione sanitaria, e si comprenderà meglio cosa alimenta il malessere ed il malcontento. Il dissesto dello Stato non solo ostacola l'innovazione e lo sviluppo tecnologico ma -ed è ciò che è più grave da un punto di vista socialista- il dissesto dello Stato penalizza la povera gente, le sottrae mezzi, servizi, possibilità. Non serve ideologizzare il problema ed attribuire le responsabilità “al sistema di potere della DC”. Questo modo di ragionare assomiglia sempre più alle imprecazioni saragattiane contro il destino cinico e baro e sempre meno ad una riflessione e ad un progetto politico. La verità nuda e cruda è che dopo la stagione del centro-sinistra la sinistra italiana, noi compresi, non ha più avuto una strategia dell'intervento sociale che non fosse puro assistenzialismo. Non essendosi posta il problema dei limiti della conflittualità sindacale, e non avendo affrontato il discorso della modernizzazione e della produttività dei servizi, la sinistra è costretta in questo cul di sacco in cui deve scegliere: o non rifinanziare l'industria di Stato o tagliare la spesa sociale. Davvero un bel capolavoro!
L'alleanza tra il merito ed il bisogno è la base sociale possibile e giusta ed è con ciò stesso la base morale e civile del riformismo moderno. E' ciò che deve ispirare la condotta dei nostri sindaci e dei nostri amministratori, dei nostri ministri e dei nostri sottosegretari; del partito nel suo assieme se il partito, come sembra volere, torna ad essere anche attore sociale nelle malcalcolate strutture del decentramento amministrativo, sanitario e scolastico, nel sindacato e nella cooperazione, nella promozione e nella organizzazione di nuove forme associative e di nuove espressioni della partecipazione politica che nascano dallo stesso nostro combattere per singole buone cause sociali e per singole buone cause civili. Il riformismo si muove nella cornice di libertà della democrazia politica costruita dal pensiero moderno, dalle lotte liberali della borghesia e alle lotte sociali e politiche del proletariato.La politica democratica è oggi sottoposta a molteplici sfide: la sfida energetica, la sfida elettronica e con esse l'insorgere di nuovi consistenti poteri: il potere finanziario, il potere dell'informazione, il potere tecnologico. Da un'altra parte essa è sottoposta alla sfida dei nuovi bisogni. La politica democratica non può né ostacolare il progresso tecnologico né eludere i problemi posti dai nuovi bisogni. Viceversa proprio la grandiosità ed insieme la rischiosità dello sviluppo tecnologico e l'insorgere dei nuovi bisogni sembrano suggerire ad opposte sponde politiche la sfiducia nella democrazia e il ricorso ad èlites, ad oligarchie o aristocrazie. E' comunque una scelta reazionaria che maschera il ricorso ad una nuova chiesa e a nuovi sacerdoti (i governi dei tecnici) per timore del cambiamento. L'essenza della democrazia è di accettare le sfide. Ma le sue vittorie non consistono nell'abolire i contendenti, ma nel dimensionarli, nel riconoscerli ed apprezzarli in quanto parte che a sua volta riconosce l'autorità democratica -rinnovabile e rinegoziabile- dei rappresentanti dei cittadini.

La superiorità della democrazia

Questa è, se dovessimo dire, la superiorità della democrazia: che la democrazia rispetta la libertà dei singoli e la valorizza se utile ai più; che pratica un governo democratico e cioè rappresentativo del pluralismo presente in seno al popolo, che riconosce altre autorità, ma non autorità superiori al proprio principio. Possiamo aggiungere che la parte sinistra della democrazia è quella che, in modo discutibile, lavora tenacemente fiduciosa in questo lato dell'essenza umana: che essa sia meravigliosamente perfettibile se le condizioni pratiche di partenza migliorano per tutti, o almeno per i più.

Non è sempre regola entusiasmante, né sempre gratificante: non fornisce la soddisfazione dell'emotività politico-partecipazionistica, il “pieno impiego psicologico” dei miti e dei riti rivoluzionari. Però è la regola più utile. E la politica democratica è la politica che si sottomette all'utilità generale, che si lascia guidare dalla ricerca dell'utile dei più se non di tutti. E la sinistra democratica è quella parte della politica democratica che vede l'utile dei più consentire o poter derivare da un miglioramento -per i più- delle condizioni di partenza: benessere, cultura, sensibilità, libertà, sicurezza. Ho cercato, come quasi tutti coloro che sono che sono intervenuti in questa nostra conferenza, di parlare di politica parlando del programma del partito. A giudicare dal successo di questa manifestazione il tentativo è riuscito. Un partito che una volta faceva parlare di sé attraverso le sue diaspore oggi parla al paese il linguaggio della responsabilità e della verità, un linguaggio fatto di buon senso e di giuste speranze. A coloro che ci chiedono di dichiarare con chi pensiamo di poter realizzare un programma così ambizioso noi rispondiamo: con le forze laiche e socialiste e nel rapporto contrattuale con la DC. A quanti, da sinistra, obiettano: “Ma la DC non ve lo consentirà mai”, noi rispondiamo: “Stia attenta piuttosto la DC a non tirare troppo la corda con noi e a non rompere con i socialisti. Potrebbe trovarsi senza corda e senza socialisti”. A coloro che insistono che un programma simile non avrà mai gambe senza l'alternativa di sinistra noi rispondiamo che senza idee chiare non solo non si può camminare, m
a -ciò che è peggio- non si può né pensare né comunicare. Ai compagni comunisti che si arrabbiano perché non partecipiamo alla caccia al tesoro della terza via noi confessiamo il nostro imbarazzo. E' da quando non andiamo più al catechismo che non sentiamo più la pretesa di dedurre una cosa dal suo nome. Indicateci prima la cosa e noi vi diremo se siamo d'accordo sulla cosa e poi anche sul nome.

A voi, care compagne e cari compagni che ci avete seguito per quattro giorni con un'attenzione al di là di ogni aspettativa e che siete -come dire- gli agenti sociali e politici del riformismo moderno; a tutti coloro che guardano con simpatia, con interesse e anche con qualche perplessità a questo nuovo corso socialista; alla maggioranza riformista sommersa che c'è nel paese e che è composta da quanti hanno merito e da quanti hanno bisogno; ai giovani sotto i vent'anni che ci guardano come strani animali, la testa piena di pensieri, in parte nuovi ed in parte antichi; alle donne che in casa o nel lavoro stanno compiendo la più lenta, la più mite e la più straordinaria delle rivoluzioni; ai reduci, ai dispersi, agli apocalittici, agli integrati delle generazioni del '68 e del '77, alla maggioranza riformista sommersa; a voi vogliamo dire: la vostra tensione se era autentica, la vostra immaginazione se davvero pensava in grande, quella stessa risata che doveva seppellire il sistema, di tutto questo abbiamo bisogno. Non per produrre confusione, non per produrre macerie, ma perché non vi siano più anni di piombo e per produrre i cambiamenti utili e possibili per governare bene l'Italia. Venite a darci una mano. Noi siamo il Partito socialista, un partito libero e aperto, un partito che ha una voglia matta di far politica, siamo il partito dei moderni ed il partito di un'antica plebe che ha spezzato tutte le sue catene.

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