Oltre la sbornia delle smart cities: quale politica per le città reali
In un quadro di disequilibri e discontinuità, dove la crisi non è certamente una notizia inedita, può essere utile riconoscere e governare “nuovi spazi” per proporre uno sviluppo possibile.
Dall'Europa (linee di programmazione 2014-2020) e dalla Cina (piano quinquennale) viene proposta la prospettiva civile allo sviluppo che guardi alle città e ai processi di generazione urbana come nuova fonte di valore aggiunto; che tragga dalla sua tradizione francescana l'ispirazione per la cura dei beni comuni e delle relazioni reciproche; e, infine, che orienti le scelte politiche verso uno sviluppo inclusivo e partecipativo. Dare conto del dibattito intorno allo sviluppo urbano diventa di giorno in giorno complesso.
Da una parte la città è ormai “sotto assedio” da parte delle diverse discipline scientifiche e “oscuro oggetto del desiderio” da parte dei decision makers. Dall'altra parte la città rischia di diventare una “moda” o la “trappola” per seguire modelli che attribuiscono poteri magici alle tecnologie e, ancor peggio, mal conciliano innovazioni strategiche con le tradizioni delle nostre città.
Alla stregua di una maggiore attenzione pubblica sullo stato di deterioramento del contesto economico, dovrebbe emergere in questi ultimi anni una maggiore preoccupazione nei confronti della “transizione vocazionale” delle città italiane, se non addirittura della perdita di identità di molte di esse. Anche la competizione futura, sia in termini di qualità urbana sia in termini di capacità di accedere al circuito dei capitali, si giocherà tra le città. Magari non le città che conosciamo e che abbiamo sperimentato fino ad oggi, magari nuove “città in nuce”, che seppure facciamo fatica a vedere sono le “città reali” che emergono dalle nostre traiettorie di vita e dai mutamenti comportamentali. Molte famiglie non esauriscono i propri consumi nello stesso luogo in cui vivono, scegliendo di volta in volta dei luoghi “specializzati” a seconda del bene o servizio cercato. Sono in aumento, ad esempio, le persone che per motivi di lavoro si spostano dando origine a nuove piste e indicando nuove rotte di breve e di lungo raggio. Tali cambiamenti in parte dipendenti da scelte individuali ridisegnano il paesaggio urbano, relegando antiche centralità a odierne scene di seconda classe e promuovendo nuove centralità fino a ieri del tutto poco pensate.
Allora, specie se leggiamo le difficoltà attuali come l'esito azioni senza un pensiero, l'assillo dei decisori politici ed economici dovrebbe essere di “conoscere la città” per poi “(ri)pensare la città”, mentre preoccupa come ci sia più l'ansia e la rincorsa a “fare la città”.
Ripensare la città non può essere un esercizio teorico, ma deve essere un percorso civile e partecipato agganciato alle sfide reali dei “luoghi che abitiamo”. La conoscenza e l'acquisizione di evidenza pubblica sui nuovi scenari demografici e sui fenomeni di suburbanizzazione, sulla la sovracapitalizzazione dell'edilizia privata e sulla necessità di valorizzare aree e contenitori urbani pubblici (specie quelli simbolo), devono essere anteposte al processo di costruzione delle strategie e di utilizzo di opportuni strumenti urbanistici.
Ripensare la città, poi, deve avere a che fare ridefinizione dell'identità di una comunità. L'azione trasformazione e rinnovamento per agganciare una traiettoria di sviluppo urbano resta sterile se non si accompagna a un “racconto condiviso” di come vogliamo diventare, che non miri solo al consenso, sia pur importante, quanto piuttosto a liberare energie propulsive.
Ripensare la città, infine, ha come oggetto la “città intera” e non “città a pezzi”. Riqualificare zone degradate senza uno sforzo strategico di visione inclusiva e condivisa su aree vaste che forzano i confini amministrativi è il modo migliore per continuare a fare la città a pezzi. Occorre recuperare la “funzione città” e i suoi temi identitari, attraverso una ricucitura dei contenitori urbani e delle aree urbane di interesse comune. Non sarà l'intelligenza delle macchine (tecnologie) o dei singoli (amministratori) a salvare le nostre città.
In questo sforzo di ripensamento strategico e di progettualità futura sono necessari percorsi utili a mobilitare e valorizzare una pluralità di risorse presenti sul territorio: istituzioni, business community, società civile. Il rischio odierno è che in questo approccio ansiogeno a “fare città” i sindaci agiscano in modo isolato, senza attivare (realmente) una rete organizzata (multistakeholders), in cui i diversi saperi disciplinari (multidisciplinarietà) – dall'economia alla sociologia, dall'architettura all'arte – possano incontrarsi e dialogare per affrontare la “questione dello sviluppo” in chiave moderna e ritrovando quei filoni tematici, identitari ma innovativi, sui quali raccordarsi per una praticabile e sostenibile progettualità territoriale.