Crisi e lavoro: investire nello sviluppo
La disoccupazione, la composizione precaria della occupazione, l’andamento crescente della cassa integrazione: sono questi i termini di riferimento per comprendere a fondo la gravita’ della crisi che sta mettendo alle corde l’Italia e l’Europa. Il primo elemento di osservazione e di riflessione quando si parla di crisi e’ indubbiamente il lavoro visto da due punti di vista: quello economico ovvero il lavoro come contributo alla creazione di valore aggiunto e fonte di generazione di consumi e risparmi e, secondo punto di vista, quello sociale-culturale all’interno del quale lo stesso diviene e rappresenta una parte dell’identita’ individuale e contribuisce al sostegno della propria autostima e della percezione di se’ rispetto alla comunita’ sociale.
A mio parere sia gli attori delle politiche pubbliche (il governo dei tecnici ed il parlamento) che dei comportamenti privati (le imprese) mettono in evidenza, nei loro comportamenti, tutta la rilevanza e la centralita’ della questione economica in una concezione di subalterna’ del sociale-culturale. Cio’ avviene perche’, a parere di chi scrive, economico e sociale spesso non vengono percepiti come sub sistemi che determinano l’equilibrio generale di una comunita’-nazione attraverso le influenze e i condizionamenti reciproci.
Non a caso il lemma sistema allude alla necessita’ di considerare le variabili in azione come un insieme guidato dalle regole della multicausalita’ integrata. Ne consegue quindi che agire solo su una o alcune variabili economiche ed in tempi dissonanti non produce probabilmente gli stessi effetti virtuosi dell’azione congiunta sistemica su entrambi i componenti.
Questa premessa serve a comprendere pregi e limiti delle recenti politiche governative attuate da alcuni paesi europei esposti alla crisi di finanziabilita’ (o fiducia degli investitori) tra i quali l’Italia.
Le politiche attuate dagli stati europei piu’ esposti su “sollecitazione” della commissione europea per fronteggiare la crisi hanno puntato l’attenzione soprattutto sulla riduzione del debito che rappresenta un fattore altamente destabilizzante rispetto alla tenuta dell’euromoneta nei mercati finanziari e negli scambi internazionali e sull’azzeramento del deficit tra entrate e uscite dello stato come condizione per fare fronte al costo crescente del debito. L’Italia e’ tra i paesi che hanno operato meglio ed in fretta in questi mesi (pregi), tuttavia, generando costi sociali elevati che hanno implicazioni sulla tenuta della coesione sociale nonche’ da un punto di vista della equita’ percepita (difetti).
Tassare in maniera indiscriminata produce una percezione di ingiustizia sociale cosi’ come tassare la prima casa, soprattutto dopo la euforia della detassazione precedente, come d’altronde la eccessiva concentrazione di attenzione e di tempo all’articolo 18 che, come simbolo di una parte sociale rilevante, diventa immediatamente momento di contrasto. Addurre peraltro che la reintegrazione del lavoratore decisa dal magistrato sia una barriera all’ingresso di investimenti stranieri in Italia pare veramente poco credibile sia per la scarsa consistenza numerica del fenomeno sia per la scarsa generale attrattivita’ del paese Italia che si colloca al penultimo posto nella graduatoria dei paesi che attirano investimenti stranieri in rapporto al PIL (fonte OCSE – rapporto “Italia multinazionale 2010”) con un modestissimo 1,2% come media del periodo 2001-2010. Che alla fine il governo dei tecnici sia tornato parzialmente sui suoi passi su questo punto non attenua le perplessita’ su una gestione inefficace del tempo che si poteva spendere per mettere a punto una strategia di intervento sui grandi patrimoni personali compresi i capitali in rientro. Secondo Bankitalia gli 8.640 miliardi di euro della ricchezza netta degli italiani rappresentano statisticamente 400 mila euro medie per ognuna delle 24 milioni di famiglie ma, la distribuzione interna vede 12 milioni di famiglie con un patrimonio di 860 miliardi, 9 milioni e 600 mila famiglie con un patrimonio di 3 miliardi e 880 milioni, 2 milioni e 400 mila famiglie con 3 miliardi e 880 milioni, infine 240 mila famiglie possiedono 1.120 miliardi. L’indice di Gini sulla disuguaglianza colloca l’Italia (secondo OCSE) all’ultimo posto della classe 9 a 1 come rapporto tra reddito del 10% piu’ ricco e 10% piu’ povero. Di questi 8640 miliardi della ricchezza netta quasi 5000 sono rappresentate da immobili che verranno tassati dalla IMU mentre i 3600 miliardi rimanenti sono depositi bancari e investimenti finanziari non distinguibili tra le categorie sociali, ma forse raggiungibili fiscalmente in termini maggiormente progressivi?
Per quanto riguarda il secondo attore che condiziona il lavoro, ovvero i datori-imprese, la realta’ appare piuttosto preoccupante non tanto per la redditivita’ (utili netti delle imprese) che continua ad esserci (rapporto Mediobanca), quanto per la visione complessiva del livello competitivo, per il coraggio di scegliere ed accettare il rischio che gli imprenditori non mettono in luce da almeno un decennio. Attorno alla questione del lavoro vi sono altri aspetti imprescindibili per comprendere meglio come il sistema delle imprese crei poco lavoro: gli investimenti, la produttivita’, la creazione di valore aggiunto, la distribuzione di utili alla proprieta’ (ROE).
Secondo M. Panara (repubblica Affari e finanza febbraio 2012) tra il 1993 ed il 2010, Il valore aggiunto sul valore della produzione passa dal 27 al 17% il ROE da -10% a +8%, la vita media degli impianti passa da meno di 10 anni a quasi 17, ed in quest’ultimo dato si puo’ leggere la caduta della produttivita’ per lo meno in parte rilevante. Gli imprenditori stanno in questi anni mungendo la vecchia vacca (R. Gallo). Questi sono dati medi (istat) e quindi non rendono giustizia ad una percentuale di imprese e di settori che fanno tutt’altro ed investono, fanno innovazione, creano condizioni di lavoro positive e, probabilmente, le troveremmo tra le piccole e medie imprese che continuano a reggere il peso economico della produzione di ricchezza non solo in Italia ma anche in Europa (sono 23 milioni le piccole aziende nella UE e la commissione se ne sta occupando da tempo, vedi il recente Small Business Act). Per completare il quadro non roseo delle imprese italiane si rileva la sottocapitalizzazione che nel 2009 (rapporto corporate Efige) vedeva una copertura dell’attivo con capitale proprio per un 12% contro il 30% della Francia ed il 34% della Germania. In una fase come la attuale di difficolta’ di accesso al credito bancario con le banche stesse sotto la lente di Basilea 3 e con le sofferenze in grande incremento, diviene quasi impossibile pensare alla innovazione e alla internazionalizzazione che richiederebbero capitali di rischio. Infine un paio di ragioni che contribuiscono in parte a spiegare questa situazione:
-la “competizione sleale della finanza nei confronti della economia reale” ovvero la capacita’ di remunerazione della rendita decisamente superiore alla redditivita’ del capitale sociale d’impresa;
-i cambiamenti interni nei vertici delle aziende con i passaggi generazionali e con l’arrivo del management nelle imprese piu’ piccole: non sempre giovani imprenditori e management hanno la “cultura del sacrificio” che ha caratterizzato le generazioni creatrici delle imprese
Che caratteristiche dovrebbe possedere un piano di intervento che agisce secondo logiche sistemiche come accennato in precedenza, e quindi, contemporaneamente sulle variabili economiche e sociali-culturali?
Se si assume la priorita’ del lavoro occorre citare qualche dato (fonti Eurostat, istat, elaborazioni CGIA non del tutto omogenei temporalmente ma con differenze minime):
-disoccupazione in Italia oltre il 9% con una media europea dei 27 del 9,9%; la disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) si attesta sul 31% dal 20,3% del 2007, peggio in europa solo la Grecia, Spagna;
-composizione degli occupati: lavoratori 15-24 anni con contratto a termine 30% circa degli occupati siamo in buona compagnia con Francia, Germania, Svezia, Spagna, Polonia, Portogallo, Slovenia che si attestano tra il 35% ed il 70%
-lavoratori precari nel 2010 oltre il 17% degli occupati (quasi il 60% nella fascia 25-44 anni)
-cassa integrazione: oltre 300 mila lavoratori
Una emergenza nel quadro dei problemi del lavoro riguarda oltre un milione e mezzo di giovani (un milione di donne) che, sfiduciati, non studiano e non lavorano e ci richiamano con grande attenzione alla priorita’ del lavoro come dimensione sociale. Attenzione quindi a non mollare rispetto ad una parte della generazione dei giovani a rischio di emarginazione grave.
Le caratteristiche di base di un piano di intervento sistemico potrebbero essere allora:
Primo aspetto fondamentale: per trovare le risorse i nuovi monetaristi (teoria della MMT, J. Galbraith, R Wray, S. Kelton) ci dicono che deficit e debito possono correre oltre i limiti stabiliti da Maastricht in quanto le banche centrali possono finanziare il debito emettendo carta moneta mentre allo stato (liberato dai vincoli del debito e del deficit) si chiede di:
-generare una forte domanda di beni e opere (investimenti pubblici)
-creare condizioni di facilitazione per le piccole imprese attraverso accesso al credito, ai servizi per la gestione, all’export, alle aggregazioni
-favorire la innovazione, la ricerca di base ed il trasferimento, attraverso i mediatori di cambiamento, alle imprese e alle forme di aggregazione in rete verticale e di filiera delle stesse.
Il secondo aspetto concerne la formazione (e prima ancora la istruzione) intesa come strumento di supporto e facilitazione del cambiamento necessario all’interno delle imprese e delle organizzazioni pubbliche. Una formazione capace di generare passaggi di cultura significativi rispetto al “nuovo necessario”.
Lo sviluppo che si crea attraverso queste piste sara’ in grado di produrre entrate per lo stato che potranno facilitare nel tempo il raggiungimento del pareggio di bilancio e la riduzione del debito e del suo costo a patto che:
-si combatta l’evasione e si penalizzi il falso di bilancio
-si operi per uno spending riview importante
-si diano segnali per una autentica politica economica di paese utilizzando la leva fiscale come strumento di “orientamento” per i comportamenti imprenditoriali ritenuti virtuosi
-si carichi fiscalmente la rendita, in un quadro omogeneo a livello internazionale
A mio parere sia gli attori delle politiche pubbliche (il governo dei tecnici ed il parlamento) che dei comportamenti privati (le imprese) mettono in evidenza, nei loro comportamenti, tutta la rilevanza e la centralita’ della questione economica in una concezione di subalterna’ del sociale-culturale. Cio’ avviene perche’, a parere di chi scrive, economico e sociale spesso non vengono percepiti come sub sistemi che determinano l’equilibrio generale di una comunita’-nazione attraverso le influenze e i condizionamenti reciproci.
Non a caso il lemma sistema allude alla necessita’ di considerare le variabili in azione come un insieme guidato dalle regole della multicausalita’ integrata. Ne consegue quindi che agire solo su una o alcune variabili economiche ed in tempi dissonanti non produce probabilmente gli stessi effetti virtuosi dell’azione congiunta sistemica su entrambi i componenti.
Questa premessa serve a comprendere pregi e limiti delle recenti politiche governative attuate da alcuni paesi europei esposti alla crisi di finanziabilita’ (o fiducia degli investitori) tra i quali l’Italia.
Le politiche attuate dagli stati europei piu’ esposti su “sollecitazione” della commissione europea per fronteggiare la crisi hanno puntato l’attenzione soprattutto sulla riduzione del debito che rappresenta un fattore altamente destabilizzante rispetto alla tenuta dell’euromoneta nei mercati finanziari e negli scambi internazionali e sull’azzeramento del deficit tra entrate e uscite dello stato come condizione per fare fronte al costo crescente del debito. L’Italia e’ tra i paesi che hanno operato meglio ed in fretta in questi mesi (pregi), tuttavia, generando costi sociali elevati che hanno implicazioni sulla tenuta della coesione sociale nonche’ da un punto di vista della equita’ percepita (difetti).
Tassare in maniera indiscriminata produce una percezione di ingiustizia sociale cosi’ come tassare la prima casa, soprattutto dopo la euforia della detassazione precedente, come d’altronde la eccessiva concentrazione di attenzione e di tempo all’articolo 18 che, come simbolo di una parte sociale rilevante, diventa immediatamente momento di contrasto. Addurre peraltro che la reintegrazione del lavoratore decisa dal magistrato sia una barriera all’ingresso di investimenti stranieri in Italia pare veramente poco credibile sia per la scarsa consistenza numerica del fenomeno sia per la scarsa generale attrattivita’ del paese Italia che si colloca al penultimo posto nella graduatoria dei paesi che attirano investimenti stranieri in rapporto al PIL (fonte OCSE – rapporto “Italia multinazionale 2010”) con un modestissimo 1,2% come media del periodo 2001-2010. Che alla fine il governo dei tecnici sia tornato parzialmente sui suoi passi su questo punto non attenua le perplessita’ su una gestione inefficace del tempo che si poteva spendere per mettere a punto una strategia di intervento sui grandi patrimoni personali compresi i capitali in rientro. Secondo Bankitalia gli 8.640 miliardi di euro della ricchezza netta degli italiani rappresentano statisticamente 400 mila euro medie per ognuna delle 24 milioni di famiglie ma, la distribuzione interna vede 12 milioni di famiglie con un patrimonio di 860 miliardi, 9 milioni e 600 mila famiglie con un patrimonio di 3 miliardi e 880 milioni, 2 milioni e 400 mila famiglie con 3 miliardi e 880 milioni, infine 240 mila famiglie possiedono 1.120 miliardi. L’indice di Gini sulla disuguaglianza colloca l’Italia (secondo OCSE) all’ultimo posto della classe 9 a 1 come rapporto tra reddito del 10% piu’ ricco e 10% piu’ povero. Di questi 8640 miliardi della ricchezza netta quasi 5000 sono rappresentate da immobili che verranno tassati dalla IMU mentre i 3600 miliardi rimanenti sono depositi bancari e investimenti finanziari non distinguibili tra le categorie sociali, ma forse raggiungibili fiscalmente in termini maggiormente progressivi?
Per quanto riguarda il secondo attore che condiziona il lavoro, ovvero i datori-imprese, la realta’ appare piuttosto preoccupante non tanto per la redditivita’ (utili netti delle imprese) che continua ad esserci (rapporto Mediobanca), quanto per la visione complessiva del livello competitivo, per il coraggio di scegliere ed accettare il rischio che gli imprenditori non mettono in luce da almeno un decennio. Attorno alla questione del lavoro vi sono altri aspetti imprescindibili per comprendere meglio come il sistema delle imprese crei poco lavoro: gli investimenti, la produttivita’, la creazione di valore aggiunto, la distribuzione di utili alla proprieta’ (ROE).
Secondo M. Panara (repubblica Affari e finanza febbraio 2012) tra il 1993 ed il 2010, Il valore aggiunto sul valore della produzione passa dal 27 al 17% il ROE da -10% a +8%, la vita media degli impianti passa da meno di 10 anni a quasi 17, ed in quest’ultimo dato si puo’ leggere la caduta della produttivita’ per lo meno in parte rilevante. Gli imprenditori stanno in questi anni mungendo la vecchia vacca (R. Gallo). Questi sono dati medi (istat) e quindi non rendono giustizia ad una percentuale di imprese e di settori che fanno tutt’altro ed investono, fanno innovazione, creano condizioni di lavoro positive e, probabilmente, le troveremmo tra le piccole e medie imprese che continuano a reggere il peso economico della produzione di ricchezza non solo in Italia ma anche in Europa (sono 23 milioni le piccole aziende nella UE e la commissione se ne sta occupando da tempo, vedi il recente Small Business Act). Per completare il quadro non roseo delle imprese italiane si rileva la sottocapitalizzazione che nel 2009 (rapporto corporate Efige) vedeva una copertura dell’attivo con capitale proprio per un 12% contro il 30% della Francia ed il 34% della Germania. In una fase come la attuale di difficolta’ di accesso al credito bancario con le banche stesse sotto la lente di Basilea 3 e con le sofferenze in grande incremento, diviene quasi impossibile pensare alla innovazione e alla internazionalizzazione che richiederebbero capitali di rischio. Infine un paio di ragioni che contribuiscono in parte a spiegare questa situazione:
-la “competizione sleale della finanza nei confronti della economia reale” ovvero la capacita’ di remunerazione della rendita decisamente superiore alla redditivita’ del capitale sociale d’impresa;
-i cambiamenti interni nei vertici delle aziende con i passaggi generazionali e con l’arrivo del management nelle imprese piu’ piccole: non sempre giovani imprenditori e management hanno la “cultura del sacrificio” che ha caratterizzato le generazioni creatrici delle imprese
Che caratteristiche dovrebbe possedere un piano di intervento che agisce secondo logiche sistemiche come accennato in precedenza, e quindi, contemporaneamente sulle variabili economiche e sociali-culturali?
Se si assume la priorita’ del lavoro occorre citare qualche dato (fonti Eurostat, istat, elaborazioni CGIA non del tutto omogenei temporalmente ma con differenze minime):
-disoccupazione in Italia oltre il 9% con una media europea dei 27 del 9,9%; la disoccupazione giovanile (tra i 15 e i 24 anni) si attesta sul 31% dal 20,3% del 2007, peggio in europa solo la Grecia, Spagna;
-composizione degli occupati: lavoratori 15-24 anni con contratto a termine 30% circa degli occupati siamo in buona compagnia con Francia, Germania, Svezia, Spagna, Polonia, Portogallo, Slovenia che si attestano tra il 35% ed il 70%
-lavoratori precari nel 2010 oltre il 17% degli occupati (quasi il 60% nella fascia 25-44 anni)
-cassa integrazione: oltre 300 mila lavoratori
Una emergenza nel quadro dei problemi del lavoro riguarda oltre un milione e mezzo di giovani (un milione di donne) che, sfiduciati, non studiano e non lavorano e ci richiamano con grande attenzione alla priorita’ del lavoro come dimensione sociale. Attenzione quindi a non mollare rispetto ad una parte della generazione dei giovani a rischio di emarginazione grave.
Le caratteristiche di base di un piano di intervento sistemico potrebbero essere allora:
Primo aspetto fondamentale: per trovare le risorse i nuovi monetaristi (teoria della MMT, J. Galbraith, R Wray, S. Kelton) ci dicono che deficit e debito possono correre oltre i limiti stabiliti da Maastricht in quanto le banche centrali possono finanziare il debito emettendo carta moneta mentre allo stato (liberato dai vincoli del debito e del deficit) si chiede di:
-generare una forte domanda di beni e opere (investimenti pubblici)
-creare condizioni di facilitazione per le piccole imprese attraverso accesso al credito, ai servizi per la gestione, all’export, alle aggregazioni
-favorire la innovazione, la ricerca di base ed il trasferimento, attraverso i mediatori di cambiamento, alle imprese e alle forme di aggregazione in rete verticale e di filiera delle stesse.
Il secondo aspetto concerne la formazione (e prima ancora la istruzione) intesa come strumento di supporto e facilitazione del cambiamento necessario all’interno delle imprese e delle organizzazioni pubbliche. Una formazione capace di generare passaggi di cultura significativi rispetto al “nuovo necessario”.
Lo sviluppo che si crea attraverso queste piste sara’ in grado di produrre entrate per lo stato che potranno facilitare nel tempo il raggiungimento del pareggio di bilancio e la riduzione del debito e del suo costo a patto che:
-si combatta l’evasione e si penalizzi il falso di bilancio
-si operi per uno spending riview importante
-si diano segnali per una autentica politica economica di paese utilizzando la leva fiscale come strumento di “orientamento” per i comportamenti imprenditoriali ritenuti virtuosi
-si carichi fiscalmente la rendita, in un quadro omogeneo a livello internazionale