Licenziamenti facili? La Malignità del Banale
La prima banalità da scardinare è la confusione, meglio l'identificazione, tra diritto e regola. Il diritto è il principio legale secondo cui lo svolgimento di un rapporto di lavoro, inclusa la sua terminazione, deve sottostare ad alcune regole per tutelare la parte più debole (il lavoratore) dal potere di mercato di quella più forte (l'imprenditore). In Italia, l'articolo 18 è la regola che mette in pratica quel principio: fornisce al lavoratore la possibilità di contestare un licenziamento davanti a un giudice e di ottenere, se questo gli dà ragione, il reintegro sul posto di lavoro. Fatta eccezione per i più liberisti, tra i quali si segnalano i Radicali, il diritto non è stato messo in discussione. Si contesta la funzionalità della regola. Che, al contrario del diritto, non è appesa ad un principio astratto ma si concretizza nella realtà dei rapporti aziendali e più in generale nel funzionamento del mercato del lavoro.
La seconda banalità è l'illusione che la regola definita dall'articolo 18 funzioni bene. Ricordare che la cosiddetta 'tutela reale' si applica nelle imprese sopra i 16 dipendenti non fa mai male: poiché il 97% delle imprese italiane si trova sotto quella soglia dimensionale, ad essere tutelati dall'articolo 18 sono circa 7 milioni di dipendenti nel settore privato su un totale di 17,5 milioni. Per non contare, ovviamente, i lavoratori atipici il cui contratto semplicemente scade. Il vero nodo del problema sta in una variabile ben precisa: il giudice. In Italia i tempi di una sentenza definitiva raramente scendono sotto i 12 mesi. Un anno perché lavoratore e imprenditore sappiano il proprio destino. In Germania il 65% delle sentenze di primo grado arriva entro 3 mesi1. L'attesa sfibra e gli avvocati costano: al lato pratico, in Italia gran parte dei contenziosi vengono risolti per via extra-giudiziale con un accordo tra le parti su una buonuscita in denaro. Che garantisce al lavoratore una compensazione certa per il licenziamento al posto dell'incertezza sull'esito della decisione del giudice. Secondo la vulgata corrente, il mantenimento dell'illusione regolativa è di sinistra; la codificazione di un dato di fatto – ad esempio, la proposta-Ichino – è di destra.
La terza banalità assegna alla regolazione dei licenziamenti un ruolo di per sé salvifico per le sorti del nostro Paese. Ci farà piacere sentirci dire che non sarà l'articolo 18 a risolvere la debolezza congenita del sistema produttivo italiano: sia perché il 97% delle imprese, appunto, non ne è toccato; sia perché i problemi affondano piuttosto negli scarsi investimenti in ricerca e sviluppo, burocrazia asfittica, corruzione e oppressiva competizione interna in settori chiave. Sarà meno piacevole sapere che, facili o non facili, i licenziamenti continueranno ad avvenire proprio perché le imprese italiane sono fuscelli nel contesto internazionale. Come mostra un recente rapporto della Fondazione Europea di Dublino, durante il 2009 il 25% delle crisi aziendali monitorate in Italia sono state motivate dalla bancarotta dell'impresa (in Francia e Germania il 13%).2 Il mito della ripresa col licenziamento 'facile' si equipara a quello dell'occupazione per legge. Dire che serve un'iniezione di raziocinio per uscire da questa situazione è di destra o di sinistra?
Possiamo non essere giustamente convinti che procedure di licenziamento più snelle aumentino gli incentivi per le imprese ad assumere: nel breve periodo è altamente probabile che, come ha stimato la Cgia di Mestre, la disoccupazione si impenni ulteriormente. Si potrebbe però obiettare che questa non sia nulla di troppo diverso dall'occupazione fittizia garantita finora dalla Cassa Integrazione a lavoratori in imprese con un brillante futuro alle spalle. Che parte delle cospicue risorse utilizzate per finanziare il sovradimensionamento di quella potrebbero invece essere impiegate per estendere la tutela contro la disoccupazione. E soprattutto che la ripresa dell'occupazione in Italia passi attraverso una profonda ristrutturazione del sistema produttivo a vantaggio di settori industriali e non con maggiori chance di tenuta nel futuro. Non si possono nascondere sotto il tappeto i motivi economici che inducono le imprese a licenziare: si può invece investire sulla priorità del reimpiego dei lavoratori colpiti e sul mantenimento del loro reddito.
Chiaramente influenzato dall'appartenenza del proponitore al Partito Fascista, il progetto di legge Ichino non cancella l'articolo 18 per quanto riguarda i licenziamenti discriminatori ma stabilisce che l'impresa compensi un lavoratore licenziato per motivi economici con il mantenimento del suo reddito a partire dal 90% del salario per il primo anno con importo a scalare nei due anni successivi. Un livello di tutela inesistente nemmeno in Francia e Germania. Lo si metta bene in chiaro: Ichino si occupa di diritto del lavoro, a lui tocca l'onere di sostituire il governo per impostare un dibattito razionale sull'articolo 18. Girano parecchie idee che toccano tutti gli altri punti necessari a completare il quadro: dalla proposta della CGIL sulla riforma degli ammortizzatori sociali, a quella avanzata tra gli altri dall'economista Filippo Taddei sulla riforma del fisco.3
Non solo articolo 18 ma anche articolo 18. Che serva un governo, un altro governo è fuori di dubbio. Che serva anche liberarsi dalla malignità del banale è condizione essenziale per chi crede che la conservazione è di destra e il rischio del progresso di sinistra.
1
2 European Foundation for the Improvement of Living and Working Conditions (2010) 'Extending Flexicurity – The potential of short-time working schemes', ERM report 2010, p. 32.
3