Quali ragioni per quali regioni
Il popolo italiano, si sa, è fortemente emotivo e spesso lascia che siano gli impulsi più semplici e diretti a determinare la propria opinione politica. In forma ciclica, lungi dal riflettere in primo luogo sulle proprie azioni cercando di migliorare il proprio senso civico nella quotidianità, il cittadino italiano scarica ogni responsabilità sulla classe politica in generale, decretandone la totale inadeguatezza senza distinzione di persona e colore politico.
D'altronde, la classe dirigente italiana in generale, in questo momento, è probabilmente la peggiore dal dopoguerra ad oggi. Tuttavia, affinché si possa sperare in un cambiamento, è bene non accanirsi in maniera indifferenziata contro i legittimi occupanti della stanza dei bottoni, ma occorrerebbe analizzare ogni aspetto ed azione delle istituzioni e dei politici che ci governano: partendo dal basso, seguendo attentamente l'azione esecutiva delle nostre amministrazioni comunali, e via via informandoci sull'operato degli altri enti: quello provinciale, regionale, nazionale e finanche europeo.
Ora, sul tema delle cosiddette «riforme strutturali», invocate da ogni parte da almeno un decennio, appare necessario un attento studio degli addetti ai lavori, in primis dei politologi, che dovrebbero (avrebbero dovuto?) presentare qualche progetto alternativo all'attuale assetto politico ed amministrativo dello Stato, che riguardi innanzitutto l'inutile assetto bicamerale paritario, quindi il numero dei parlamentari, la legge elettorale e relazioni e competenze dei vari enti dello Stato. Insomma, si tratta di tutti quei provvedimenti che determinerebbero la nascita reale della Seconda Repubblica (attualmente è solo una definizione giornalistica del tutto impropria dal punto di vista della scienza politica, che dovrebbe essere materia di riferimento almeno in questo campo), ponendo fine all'infinita fase di transizione seguita alle inchieste di tangentopoli.
Tornando al tema dell'emotività del popolo legata ai cambiamenti necessari per rendere finalmente l'Italia un Paese «normale» dal punto di vista istituzionale (legati ad un abbattimento dei costi della politica e della pubblica amministrazione) da qualche tempo è partita la crociata popolare contro le province, oramai divenute sinonimo di sperpero di denaro pubblico secondo la stragrande maggioranza dei cittadini del Bel Paese.
L'abolizione delle province, solenne promessa dell'attuale Presidente del Consiglio durante l'ultima campagna elettorale che ha preceduto le elezioni legislative del 2008, è quindi ritenuta fondamentale per ripristinare un assetto istituzionale virtuoso; tutti i poteri dell'ente intermedio si trasferirebbero ai comuni e soprattutto alle regioni, così da ottenere un netto taglio al personale politico ed amministrativo e contemporaneamente la gestione della cosa pubblica dovrebbe poi divenire, per incanto, decisamente più efficiente.
Il Governo, a caccia di facili consensi, ha cavalcato l'onda della protesta popolare anti-province ed ha infine approvato un disegno di legge costituzionale che modifica sette articoli della nostra Carta (art. 114,117,118, 119, 120, 132, 133), delegando alle regioni il compito di sostituire le province con nuove entità intermedie, le «città metropolitane» e «l'unione di comuni» e di definirne le competenze. La ratio della riforma segue l'umore popolare: «Dall'attuazione della presente legge costituzionale – si legge – deve derivare in ogni regione una riduzione dei costi complessivi degli organi politici ed amministrativi».
Il doppio passaggio parlamentare, con intervallo non minore di tre mesi e maggioranza assoluta in Camera e Senato nella seconda votazione, per non parlare dell'incognita referendum, permetteranno una più attenta riflessione sull'opportunità di mandare in porto questa riforma.
Innanzitutto, è bene chiarire che tale provvedimento non trasferirebbe alle regioni o ai comuni le funzioni ora esercitate dalle province, ma a dei nuovi enti intermedi che, sebbene nelle previsioni dovrebbero essere più «leggeri», saranno comunque composti da amministratori di nomina elettiva, ossia da politici. Resta poi da verificare l'adeguamento delle strutture periferiche dello Stato (questure, prefetti ecc.) con i nuovi organi intermedi, che potrebbero essere anche istituiti dalle regioni in quantità maggiore rispetto alle province stesse (ad esempio, è possibile che vi siano due «unione di comuni» nel territorio in cui ora amministra una sola provincia).
Per quel che riguarda il sacrosanto principio di sussidiarietà, è evidente come alcune mansioni espletate dalle province non possano essere gestite dalle regioni o dai comuni, poiché troppo lontani dalle esigenze del cittadino o non sufficientemente forti da poterle eseguire efficacemente: il riferimento va alle questioni legate allo smaltimento dei rifiuti, alla viabilità ed ai trasporti, alle scuole, al servizio idrico. Inoltre, bisogna sottolineare come tante regioni italiane abbiano clamorosamente fallito la propria opera di amministrazione. Basti pensare ai debiti accumulati nel campo della sanità o all'incapacità di garantire tutela ambientale al territorio o ancora alla sciagurata gestione dei finanziamenti europei.
Del resto, il ricambio dei funzionari e persino degli amministratori stessi all'interno delle regioni appare farraginoso (troppo facile è richiamare qui i tre mandati di Roberto Formigoni in Lombardia e di Vasco Errani in Emilia Romagna). Così come inadeguato è il costo della politica a livello regionale: uno studio recente dell'economista Andrea Garnero pubblicato su lavoce.info indica che «le indennità dei presidenti e dei consiglieri delle regioni italiane non sembrano legate ai risultati economici del territorio, in termini di Pil pro capite, disoccupazione e occupazione. Al contrario, sembra emergere piuttosto una relazione negativa tra stipendi della politica locale e benessere e andamento del mercato del lavoro».
Alla luce di questa analisi, che certamente può dirsi quanto meno sommaria ma in qualche modo significativa, la proposta nasce spontaneamente: riorganizzare le province (abolendo magari quelle palesemente fittizie nate negli ultimi anni) in termini di personale e rappresentanza politica e affidare all'ente intermedio le funzioni ora di competenza regionale. Di conseg
uenza, aboliamo le regioni, magari tenendole in vita sottoforma di organo puramente burocratico di coordinamento territoriale, assolutamente non elettivo. Chissà, magari per un Paese come il nostro, dotato di scarno senso civico, la provincia potrebbe essere l'organo amministrativo territoriale della giusta proporzione per gestire in maniera virtuosa ed efficace i servizi pubblici. Infine, sarebbe molto più semplice per i cittadini identificare la responsabilità dei governanti, elemento basilare della democrazia rappresentativa.
D'altronde, la classe dirigente italiana in generale, in questo momento, è probabilmente la peggiore dal dopoguerra ad oggi. Tuttavia, affinché si possa sperare in un cambiamento, è bene non accanirsi in maniera indifferenziata contro i legittimi occupanti della stanza dei bottoni, ma occorrerebbe analizzare ogni aspetto ed azione delle istituzioni e dei politici che ci governano: partendo dal basso, seguendo attentamente l'azione esecutiva delle nostre amministrazioni comunali, e via via informandoci sull'operato degli altri enti: quello provinciale, regionale, nazionale e finanche europeo.
Ora, sul tema delle cosiddette «riforme strutturali», invocate da ogni parte da almeno un decennio, appare necessario un attento studio degli addetti ai lavori, in primis dei politologi, che dovrebbero (avrebbero dovuto?) presentare qualche progetto alternativo all'attuale assetto politico ed amministrativo dello Stato, che riguardi innanzitutto l'inutile assetto bicamerale paritario, quindi il numero dei parlamentari, la legge elettorale e relazioni e competenze dei vari enti dello Stato. Insomma, si tratta di tutti quei provvedimenti che determinerebbero la nascita reale della Seconda Repubblica (attualmente è solo una definizione giornalistica del tutto impropria dal punto di vista della scienza politica, che dovrebbe essere materia di riferimento almeno in questo campo), ponendo fine all'infinita fase di transizione seguita alle inchieste di tangentopoli.
Tornando al tema dell'emotività del popolo legata ai cambiamenti necessari per rendere finalmente l'Italia un Paese «normale» dal punto di vista istituzionale (legati ad un abbattimento dei costi della politica e della pubblica amministrazione) da qualche tempo è partita la crociata popolare contro le province, oramai divenute sinonimo di sperpero di denaro pubblico secondo la stragrande maggioranza dei cittadini del Bel Paese.
L'abolizione delle province, solenne promessa dell'attuale Presidente del Consiglio durante l'ultima campagna elettorale che ha preceduto le elezioni legislative del 2008, è quindi ritenuta fondamentale per ripristinare un assetto istituzionale virtuoso; tutti i poteri dell'ente intermedio si trasferirebbero ai comuni e soprattutto alle regioni, così da ottenere un netto taglio al personale politico ed amministrativo e contemporaneamente la gestione della cosa pubblica dovrebbe poi divenire, per incanto, decisamente più efficiente.
Il Governo, a caccia di facili consensi, ha cavalcato l'onda della protesta popolare anti-province ed ha infine approvato un disegno di legge costituzionale che modifica sette articoli della nostra Carta (art. 114,117,118, 119, 120, 132, 133), delegando alle regioni il compito di sostituire le province con nuove entità intermedie, le «città metropolitane» e «l'unione di comuni» e di definirne le competenze. La ratio della riforma segue l'umore popolare: «Dall'attuazione della presente legge costituzionale – si legge – deve derivare in ogni regione una riduzione dei costi complessivi degli organi politici ed amministrativi».
Il doppio passaggio parlamentare, con intervallo non minore di tre mesi e maggioranza assoluta in Camera e Senato nella seconda votazione, per non parlare dell'incognita referendum, permetteranno una più attenta riflessione sull'opportunità di mandare in porto questa riforma.
Innanzitutto, è bene chiarire che tale provvedimento non trasferirebbe alle regioni o ai comuni le funzioni ora esercitate dalle province, ma a dei nuovi enti intermedi che, sebbene nelle previsioni dovrebbero essere più «leggeri», saranno comunque composti da amministratori di nomina elettiva, ossia da politici. Resta poi da verificare l'adeguamento delle strutture periferiche dello Stato (questure, prefetti ecc.) con i nuovi organi intermedi, che potrebbero essere anche istituiti dalle regioni in quantità maggiore rispetto alle province stesse (ad esempio, è possibile che vi siano due «unione di comuni» nel territorio in cui ora amministra una sola provincia).
Per quel che riguarda il sacrosanto principio di sussidiarietà, è evidente come alcune mansioni espletate dalle province non possano essere gestite dalle regioni o dai comuni, poiché troppo lontani dalle esigenze del cittadino o non sufficientemente forti da poterle eseguire efficacemente: il riferimento va alle questioni legate allo smaltimento dei rifiuti, alla viabilità ed ai trasporti, alle scuole, al servizio idrico. Inoltre, bisogna sottolineare come tante regioni italiane abbiano clamorosamente fallito la propria opera di amministrazione. Basti pensare ai debiti accumulati nel campo della sanità o all'incapacità di garantire tutela ambientale al territorio o ancora alla sciagurata gestione dei finanziamenti europei.
Del resto, il ricambio dei funzionari e persino degli amministratori stessi all'interno delle regioni appare farraginoso (troppo facile è richiamare qui i tre mandati di Roberto Formigoni in Lombardia e di Vasco Errani in Emilia Romagna). Così come inadeguato è il costo della politica a livello regionale: uno studio recente dell'economista Andrea Garnero pubblicato su lavoce.info indica che «le indennità dei presidenti e dei consiglieri delle regioni italiane non sembrano legate ai risultati economici del territorio, in termini di Pil pro capite, disoccupazione e occupazione. Al contrario, sembra emergere piuttosto una relazione negativa tra stipendi della politica locale e benessere e andamento del mercato del lavoro».
Alla luce di questa analisi, che certamente può dirsi quanto meno sommaria ma in qualche modo significativa, la proposta nasce spontaneamente: riorganizzare le province (abolendo magari quelle palesemente fittizie nate negli ultimi anni) in termini di personale e rappresentanza politica e affidare all'ente intermedio le funzioni ora di competenza regionale. Di conseg
uenza, aboliamo le regioni, magari tenendole in vita sottoforma di organo puramente burocratico di coordinamento territoriale, assolutamente non elettivo. Chissà, magari per un Paese come il nostro, dotato di scarno senso civico, la provincia potrebbe essere l'organo amministrativo territoriale della giusta proporzione per gestire in maniera virtuosa ed efficace i servizi pubblici. Infine, sarebbe molto più semplice per i cittadini identificare la responsabilità dei governanti, elemento basilare della democrazia rappresentativa.